Se non è riuscito ad affermarsi come modello, occorre almeno mantenerlo in vita. A tutti i costi, umani ed economici. Il protocollo Italia-Albania in materia di flussi migratori, a un anno dal primo giorno della sua messa a terra, e a quasi due anni dalla firma dell’intesa, ha come risultato quello di un enorme investimento pubblico che non è andato nella direzione sperata dal governo di Giorgia Meloni. «Funzioneranno», aveva detto la premier ad Atreju.
Ciò che sembra funzionare però è la capacità di rendere un sistema sempre più opaco, di mostrare come le norme possano essere adattate per l’obiettivo e di continuare a spendere risorse pubbliche.
Perché per dimostrare il suo funzionamento, il trattenimento di poco più di una decina di persone, c’è bisogno di una struttura retta da moltissimi soggetti: a partire dal personale dell’ente gestore Medihospes, alle forze dell’ordine, soprattutto della Polizia di Stato, agli agenti di Polizia penitenziaria, per alcune operazioni la Marina Militare e, ancor prima, il ministero della Difesa per la costruzione delle strutture. A coordinare presenze e trasferimenti è invece il Viminale.
Due fasi
Il protocollo con l’Albania ha attraversato diverse fasi, ognuna segnata da un decreto legge che cercava di modellare le norme all’operazione, e non viceversa. La costante però è stata l’assenza di un contratto che regolasse le condizioni tra l’ente gestore e la prefettura.
Il progetto inizialmente prevedeva un centro di trattenimento per chi veniva soccorso dalle autorità italiane in acque internazionali, proveniente da paesi considerati sicuri e, quindi, soggetto alle procedure accelerate di frontiera.
La struttura di Shëngjin, a circa 60 chilometri a nord di Tirana, era stata ideata come centro di identificazione. Quella di Gjadër, nell’entroterra, a una ventina di minuti di distanza, prevedeva, invece, un centro per richiedenti asilo in frontiera, con una capienza di 880 posti. Un Cpr da 144 posti in attesa del rimpatrio per coloro a cui sarebbe stata negata la protezione internazionale. E, infine, un penitenziario da venti posti per coloro che avrebbero compiuto reati durante la detenzione.
Il complesso di Gjadër non è stato terminato ed è entrato in funzione in fretta e furia il 16 ottobre 2024 con poche decine di posti disponibili. A marzo 2025, i posti realizzati erano circa 400. La prima fase del protocollo ha visto entrare nei container grigi una ventina di persone circa, nel 2024, e 43 a gennaio 2025.
Di fronte alle decisioni dei giudici, che hanno riportato i richiedenti asilo in Italia, il governo ha trasformato Gjadër in Cpr il 28 marzo scorso. Così da inizio aprile è diventato l’undicesimo Cpr italiano, dove viene portato chi non ha un permesso di soggiorno valido, a discrezione dell’amministrazione, come se la struttura non si trovasse su un territorio extra Ue. Ora sono presenti una dozzina di persone e, fanno sapere gli avvocati che hanno assistito alcuni trattenuti, quando richiedono asilo solitamente rientrano in Italia.
Marika Ikonomu



