Se la settimana scorsa una performance particolarmente “morbida” da parte di Powell e della Lagarde aveva prodotto un crollo dei rendimenti e annesso rally delle borse, un report sul mercato del lavoro americano e un indice ISM dei servizi solidissimi hanno provveduto a rimescolare le carte e mettere in crisi quegli scenari idilliaci costruiti dal mercato, ovvero di aspettative di “rallentamento” da parte delle banche centrali. Bond e dollaro hanno infatti restituito gran parte dei guadagni
Anche l’azionario ha vissuto una settimana poco brillante, con l’Europa a dimostrare maggior resilienza rispetto agli USA. Sono comunque stati ingenti i movimenti sui rendimenti, con rialzi di oltre 30 bp sulle scadenze a 10 anni, dopo i minimi toccati in occasione delle riunioni. Minori i movimenti sulle scadenze più brevi, più ancorate alle politiche monetarie nel breve termine.
Il risultato complessivo è di una ulteriore inversione della curva americana (più impattata nel tratto a breve per via dei dati macro) che raggiunge livelli minimi a -82 bp nel segmento 2 – 10 anni.
La questione è che per effetto degli ultimi dati macro, il picco dei Fed Funds scontato dal mercato si è spostato da 4.89% a 5.16% e il 2 anni è salito di 40 bp in poche sedute: la curva USA non sconta più 2 tagli da 25 per il 2023 ma solo 30 bp, e il tasso finale del 2023 è ora più alto dei Fed Funds attuali.
Sembra che l’economia americana stia rallentando meno di quello che traspariva dai dati di dicembre quindi una Fed “dipendente dai dati” induce maggior cautela. L’incertezza previsiva macroeconomica resta elevata dato che la maggior resilienza delle economie potrebbe essere minata dall’effetto ritardato dei rialzi dei tassi già operati: alcune indagini mostrano che le banche hanno inasprito gli standard per i prestiti alle aziende e famiglie e la domanda di credito è calata un po’ su tutte le tipologie. Un inasprimento degli standard bancari di questo tipo si è spesso associato in passato a periodi di recessione.



