Il 16 dicembre 1984 Milano si svegliò con una notizia che sembrava uscita da un’altra dimensione del basket: Joe Barry Carroll all’Olimpia

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Il numero uno del Draft NBA, un uomo abituato a Kareem, Moses Malone, Artis Gilmore, che sceglieva l’Italia nel pieno della carriera. Non a fine corsa, non per svernare. Per giocare. Per sentirsi di nuovo dentro una storia.
Anni dopo, aprendo Facebook, Carroll ha scoperto che quella storia non si era mai chiusa. Messaggi dall’Italia, ricordi vivi, affetto intatto. Venticinque partite di campionato, qualche sera di Coppa Korac, uno scudetto e una coppa. Ma non è l’elenco dei trofei che conta. Conta quella sensazione che lui stesso fatica a spiegare: “A Milano facevo parte di qualcosa di speciale”.
Prima c’era stata l’America. Purdue, le Final Four, il talento elegante che convince Jim Boeheim a dire che, dopo Bill Walton, non aveva mai visto un centro così. Poi il Draft, lo scambio che cambiò la storia dei Celtics e marchiò Carroll con un’etichetta ingiusta. Numeri enormi, vittorie poche, silenzi fraintesi. Quando il contratto con Golden State si bloccò, restare fermo non era un’opzione.
Milano apparve quasi per caso, e diventò destino.
Arrivò fuori condizione, timido, reduce da mesi senza partite vere. Dan Peterson lo prese per mano, la squadra gli fece spazio. All’inizio inciampi, la sconfitta con Caserta, l’imbarazzo davanti alle telecamere della Domenica Sportiva. Poi qualcosa scattò. I giorni passarono, le gambe tornarono leggere, il campo divenne casa.
Quella Olimpia era un gruppo che stava bene insieme, ma che in campo cambiava pelle. D’Antoni era il leader, Premier una scintilla imprevedibile, Meneghin una certezza. Si rideva fuori, si ringhiava dentro. E intanto Milano cambiava palazzetti, inseguendo un parquet dopo il crollo del Palazzone, come se nulla potesse davvero fermare quella corsa.
Lo scudetto arrivò senza sconfitte nei playoff. Un percorso netto, quasi liberatorio. Carroll tirò un sospiro profondo: non aveva rotto nulla, aveva aggiunto qualcosa. Prima di tornare in America regalò un orologio a ogni compagno. Un modo per dire grazie, per dire “questa storia me la porto via con me”.
È per questo che Joe Barry Carroll, a Milano, non è mai stato solo un americano di passaggio. È stato un capitolo. E certi capitoli, anche dopo quarant’anni, continuano a farsi rileggere.