Se annualmente le lunghe liste di attesa della sanità pubblica portano le famiglie italiane a dover spendere 40 miliardi annui per prestazioni diagnostiche e terapeutiche nel privato, un quarto di tale somma viene vincolato, o meglio fuor di metafora letteralmente divorato dalle cure dentistiche
Parliamo infatti di una cifra totale che solo nell’ultimo anno ha comportato, per i nostri portafogli, un’uscita di circa nove miliardi e mezzo di euro, a fronte di appena 500 milioni messi a disposizione dal servizio sanitario nazionale. Praticamente, la sanità pubblica, quella istituita in forma accessibile e universale dalla compianta Ministra Tina Anselmi fin dalla fine degli anni Settanta del Novecento, per i nostri denti non esiste. Fine della storia. E inizio di un dibattito che si è riproposto successivamente allo scoppio della prima ondata pandemica, quando è ulteriormente cresciuto il numero di persone che rinunciano a recarsi dal dentista per ragioni di carenti o nulla disponibilità economiche in tal senso.
Nel nostro Paese, oramai, 4 bambini su dieci e tre adulti su dieci soffrono di carie non trattate, e quasi 6 milioni e mezzo di maggiorenni sopra i vent’anni di età hanno meno di otto denti su 32.
Un problema di gravissimo impatto sociale, relazionale e sanitario correlato, poiché una bocca non sana incide sulla qualità dell’alimentazione e sviluppa problemi addizionali sul terreno della mancata prevenzione di altre malattie divenute così non controllabili come i tumori del cavo orale.
Non è un caso che una quota crescente di nostri connazionali si rechi stabilmente all’estero, in particolare nei balcanici affacciati sull’Adriatico, Albania in primis, per cercare soluzioni che con la stessa professionalità e qualità richiedano tariffe molto più basse di quelle italiane che stentano a diminuire.
Da questo punto di vista, anche i decreti tariffari in materia di Lea, i livelli essenziali di assistenza con cui il ministero della Salute fissa i settori e le tipologie di intervento a carico del settore pubblico, hanno rappresentato una grande occasione mancata, e la negazione stessa del diritto alla cura per una società in crisi di natalità e in progressivo invecchiamento: se da una parte concepire un figlio è un atto frenato dalle previsioni di costi economici crescenti, dall’altro non è più tollerabile che la sempre maggiore incidenza del ruolo della terza e quarta età non sia accompagnata da interventi idonei a intervenire sulla salute dentale dei nostri anziani.
Un problema di cui sembra essere consapevole, in ragione del fatto di essere egli stesso un medico, il Professor Orazio Schillaci, il luminare scelto dalla premier Giorgia Meloni per guidare il delicato dicastero della sanità. Il cui Consiglio superiore, massimo organismo collegiale consultivo del ministro, ha istituito un gruppo di lavoro affidato al dottor Gherlone, con l’obiettivo di mettere a punto ipotesi operative le quali, pur non potendo acquisire al bilancio pubblico la totalità della spesa sopportata dalle famiglie in tale ambito, creino comunque le condizioni per accelerare sul fronte della prevenzione e per assicurare quanto meno una minima idonea copertura alle due categorie anagrafiche maggiormente vulnerabili: quelle rispettivamente sotto 15 e sopra i 65 anni di età.
Tuttavia, malgrado un interessamento politico e personale, lo scenario rimane a tinte molto cupe: in una delle ipotesi in campo, si parla addirittura di ridurre a 200 o a 300 milioni al massimo la spesa pubblica dedicata, in un’altra di accrescere la stessa al massimo di 170 o di 340 milioni giusto per ricomprendere in essa la componente della ortodonzia a beneficio di bambini e anziani.
Nulla di più e molto di meno, verrebbe da dire con amarezza, dal momento che la dolcezza non ce la possiamo più permettere poiché caria i denti.
Il governo, per dimostrarsi non insensibile al problema, ha pertanto affidato a un pool di esperti l’incarico di promuovere la creazione di una rete di professionisti sociali che coinvolga gli studi odontoiatrici più inclini a praticare tariffe calmierate – adesioni che dovrebbero essere facilitate dal difficile momento economico vissuto dalla stessa categoria dentistica – e i nuovi laureati insigniti della laurea abilitante in scienze odontoiatriche. Questi ultimi, per legge, sono infatti tenuti a eseguire un numero minimo di prestazioni annuali.
L’intendimento è di erogare 700.000 prestazioni addizionali all’anno tramite le università, oltre a incentivare il ruolo dei dentisti che già operano nel servizio sanitario nazionale, a oggi in maniera del tutto residuale, e a coinvolgere un crescente numero di dentisti privati volontari attraverso il sistema delle convenzioni.
Cifre ancora del tutto insufficienti a raggiungere l’intera platea delle famiglie morse in maniera sempre più dolorosa dalla carie e dalla crisi economica.
Nota dolente finale: né il Ministro Schillaci né altri esperti hanno mai minimamente accennato alla possibilità di dedicare una parte delle tax expenditures, le spese fiscali sostenute dallo Stato per garantire le detrazioni e le deduzioni fiscali di legge, al finanziamento di 9,5 miliardi oggi a carico dei bilanci familiari, ma che con l’accollo delle cure in capo allo Stato vedrebbero il proprio onere calare di anno in anno grazie agli effetti della prevenzione e degli interventi chirurgici relativi.
Insomma, chi ha un problema di carie corre il rischio di doversi rassegnare. O di dover emigrare oltre Adriatico, a oggi l’unica soluzione nei fatti la più efficace e priva di attese.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




