L’abbigliamento Maschile
VALLI DI LANZO (TO) – Ciò che chiamiamo comunemente “costume popolare”, che ritroviamo nelle feste e nelle sagre italiane di oggi, non risale, generalmente, ad epoche molte antiche o remote, bensì è la risultante combinata di vari fattori sociali, a loro volta da relazionare a luoghi e situazioni ambientali diversi, comunque risalenti mediamente alla seconda metà del Settecento, quando migliorarono di molto, soprattutto al nord – le condizioni di vita delle classi “inferiori”.
In questo periodo – dopo aver soddisfatto al meglio i bisogni primari del nutrimento e dell’abitazione – si sentì il bisogno di migliorare anche il proprio abbigliamento in occasione di feste religiose, avvenimenti famigliari come i matrimoni, spostamenti dalla campagna in città…, cosa che già avevano fatto sia la classe aristocratica sia quella borghese. Paradossalmente l’abbandono dei costumi tradizionali maschili e femminili (soprattutto i secondi) è poi avvenuto proprio per il livellamento sociale, l’uniformazione del vivere comune con i miglioramenti generalizzati del tenore di vita e la diminuzione delle distanze tra le classi.
Mentre per i costumi femminili è stata conservata più memoria (e certezze nelle ricostruzioni), per quelli maschili il problema è stato più complesso e spesso questi sono approssimazioni realizzate attraverso la vista di cartoline e fotografie di famiglia.
Le tre Valli di Lanzo (di Viù, d’Ala e Grande) si possono considerare culturalmente omogenee e si congiungono nel grosso centro della città di Lanzo Torinese.
Esse sono state da sempre (dai Romani ai Savoia) una via di congiungimento tra il territorio francese (Savoia) e quello italo-piemontese (Torino). Col tempo esse hanno acquisito una cultura tipica ricca di espressioni di un “isolamento” montano ma anche di “innovazione”, conseguenti all’apertura delle prime vie di comunicazione avvenuta verso la metà dell’Ottocento.
Nel mondo alpino, da secoli, la vita ruotava intorno a due aspetti principali: la famiglia, molto ristretta e parentale (soprattutto in Piemonte), e la comunità di prossimità, che ne condizionavano le azioni ed i comportamenti, imponendo il rispetto delle “norme”, anche di quelle non scritte!
In questo ambito l’abbigliamento – anch’esso più o meno rigidamente codificato ed uniformato – si distingueva, oltre che per il sesso, per l’età, lo stato civile e sociale e la condizione economica e professionale ed era poco influenzato dalle mode importate dalla città.
Nei comuni delle Valli di Lanzo, contrariamente al costume femminile di cui abbiamo già parlato in un articolo precedente, fatta eccezione per la “màii dou bord” di Balme – un bianco maglione ricamato a vivaci colori, di lana grezza, caldo e robusto, adatto per l’attività pastorale (forse importato dalla Savoia) – non esisteva un vero e proprio abito maschile (come comprovato da foto e cartoline d’epoca).
I colori rosso, azzurro, verde e – solo verso la fine dell’Ottocento – nero caratterizzavano le fogge tipiche dell’abbigliamento maschile nelle Valli, accomunate da alcuni elementi nelle diverse elaborazioni. Il principale era una larga camicia “tchimisi” di canapa (tessuto più facilmente reperibile in loco), chiusa con una decorazione a pieghe o ricami sul petto e larghe maniche, molto adatte al lavoro, lunga fino alle ginocchia (!), che praticamente vestiva anche l’intimo. Il semplice e comune maglione, “corpòt”, in lana grezza bianca o semplicemente tinta di marrone, veniva spesso indossato d’inverno sopra il panciotto.
Ad essi era abbinato, prevalentemente, un fazzoletto, detto “foularin”, di un vivido colore, annodato al collo, un panciotto sempre abbottonato, “copertin”, in velluto (ma anche, spesso, in fustagno) e tante tasche, quindi sopra di esso la giacca, “djiàca”, anch’essa di fustagno, velluto o panno (secondo le condizioni sociali) oppure una maglia di lana colorata. C’erano poi i pantaloni, “bràiess”, di panno o velluto, a volte lunghi ma anche solo al ginocchio, “à la fransèisa”, con una cintura od una larga fascia a maglia di un colore vivace annodata su un fianco.
Seguivano e completavano questo tipo di abbigliamento maschile delle scure (raramente bianche) calze al ginocchio, “el ciàosse”, in lana grezza e decorate con disegni e ricami, quindi un paio di zoccoli particolari, fatti con la suola in legno e la tomaia in cuoio o feltro, oppure un paio di scarpe con lacci fino alle caviglie e con chiodi sotto la suola.
Completava il tutto un cappello, “tchapèl”, in feltro con larghe tese, in alta montagna sostituito dal berretto in pelo di marmotta, animale localmente molto diffuso, tasso o faina: “bounàt”.
Al contrario delle donne, per finire, alcuni uomini, d’inverno, in bassa valle, portavano un mantello o il tabarro.
Alcune varianti, come “el polache” (una sorta di stivaletto abbottonato), un cordoncino con due palline al collo al posto del fazzoletto annodato ed il cappello adornato con piume e penne d’uccelli di montagna, sono rimaste, e le ritroviamo oggi, solo nell’ambito dei costumi folcloristici.
Fra le tante esistenti, segnaliamo per concludere una sola curiosità: la ricchezza e l’eleganza dei costumi (soprattutto quello femminile) della Valle di Viù trovano un spiegazione nella volontà dei signori di Torino – che spesso qui si rivolgevano per reperire personale (soprattutto nutrici e balie, famose per essere sane e prosperose) – che in questo modo volevano, quale status symbol dell’epoca, caratterizzare con la loro impronta il ben vestito personale alle loro dipendenze.
Riferimenti bibliografici: C. Santacroce, O. Buonaiuto, F. Ciccaldo – Costumi delle Valli di Lanzo – Ivrea, Ferraro, 1999, 151 p.
Nella foto: il costume maschile, con la “màii dou bord” di Balme, tratto da una cartolina d’epoca per gentile concessione dell’amico, oggi scomparso, Francesco Ciccaldo.
Franco Cortese Notizie in un click



