Alla sanità andranno spiccioli, una cifra che non coprirà nemmeno l’inflazione, figuriamoci la voragine che si è aperta nei conti della sanità pubblica.
Secondo il Rapporto Gimbe e i documenti ufficiali del governo, da qui al 2028 mancheranno oltre 40 miliardi per garantire i servizi essenziali. Il rapporto tra spesa sanitaria e Pil, che era del 6,6% durante la pandemia, scenderà fino al 5,8%. Altro che “priorità alla salute”: è un lento, metodico definanziamento.
Le Regioni, intanto, affondano. Già oggi, ospedali e Asl chiudono i bilanci in rosso: 1,5 miliardi di deficit nel 2024, quasi il triplo rispetto all’anno precedente. E l’unica risposta di Palazzo Chigi è scaricare la responsabilità sugli enti locali, costretti a tagliare prestazioni o ad aumentare le tasse.
Meloni e il ministro Schillaci si vantano di “fermare la fuga dei medici” e di “rilanciare la prevenzione”. Ma con queste risorse potranno appena tamponare le emorragie, non certo guarire il sistema. Trenta mila assunzioni in tre anni sono un palliativo, mentre ogni anno migliaia di medici e infermieri lasciano il pubblico per il privato o per l’estero.
Il governo promette più screening e un piano per la salute mentale, ma dimentica il cuore del problema: liste d’attesa infinite, pronto soccorso al collasso, reparti che chiudono, Livelli essenziali di assistenza fermi da anni. Intanto la spesa privata vola a 41 miliardi di euro e quasi sei milioni di italiani rinunciano a curarsi.
Non è una “manovra per la salute”, è una resa politica. Meloni taglia sul futuro e finge di investire. Racconta di aver salvato la sanità pubblica mentre ne accompagna l’agonia. E in un Paese che invecchia, dove la fragilità cresce ogni giorno, è una colpa politica e morale che peserà per anni.


