Il M5S studia l’uscita dall’esecutivo

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Il ministro Federico D’Incà, alle cinque del pomeriggio, si appoggia alla parete di un salone del Senato.

È ridotto a uno straccio, stremato da ore di trattativa sul testo della risoluzione che doveva salvare la faccia di Mario Draghi e quella di Giuseppe Conte allo stesso tempo e che alla fine si è conclusa con l’accordo su sei parole, preposizioni incluse: “Necessario e ampio coinvolgimento delle Camere”.

Aria fritta, lo ammettono tutti: sul ruolo del Parlamento nell’invio di armi in Ucraina non si è ottenuto nulla. Ma tanto basta: l’importante, li hanno fatti ragionare, è non aver dato a Luigi Di Maio l’alibi per andarsene dai Cinque Stelle accusandoli di essere nemici dell’Europa e della Nato. Ma Di Maio se n’è andato lo stesso e al Movimento è rimasto l’amaro in bocca di vedere il loro ex capo finito “come un Renzi qualunque” e quello per aver di nuovo stretto i denti pur di rimanere nella maggioranza che li sta trattando male.

Fino a quando? Alla domanda delle domande, nessuno sa rispondere. Ma certo ieri nell’aula del Senato colpiva l’immagine attorno a Draghi che – escluso D’Incà, per le ragioni di cui sopra, e il Di Maio con due piedi già fuori – non vedeva altri esponenti del Movimento seduti ai banchi del governo. C’è chi guarda al futuro respirando aria di liberazione: “Finalmente potremo lavorare senza guardarci le spalle”.

Fioriscono gli aneddoti sugli “occhi” dei dimaiani che li hanno tenuti sotto controllo per mesi, si sprecano i retroscena sul “risarcimento” che il ministro degli Esteri avrebbe tributato a Mario Draghi per non essere riuscito a mantenere la promessa di mandarlo al Quirinale. E la certezza che, con certi (inverificabili) veleni sotterranei, rimanere insieme sarebbe stato ormai impossibile.

Ma c’è pure chi pensa che non basta un Di Maio che se ne va, per rimettere la macchina in carreggiata: “Qualcosa adesso deve cambiare – scuote la testa un contiano –. Qui non si tratta di parlamentari che se ne vanno, al massimo perdiamo i voti dei loro parenti: è gente che non ha un voto. Qui si tratta di capire come e perché restiamo al governo”.

Gli fa eco un senatore: “È tardi, purtroppo. Se fossimo usciti ai tempi della riforma Cartabia, avremmo avuto un anno e mezzo per rifarci una verginità. Ora il tempo è troppo poco, difficile invertire la rotta”. Tanto più che nuove tempeste si stanno per scatenare.

Grillo a Roma pare che non verrà più, per rimettere insieme i pezzi non c’è garante che tenga. Ma non ha smesso di farsi sentire. Ieri mattina l’ultimo post, secondo i contiani fatale per la scissione, con cui ha chiesto di fare “luce sulle nostre ferite”: un nuovo affondo sui due mandati in cui – in grassetto – chiede (a Di Maio): “Qualcuno non crede più nelle regole del gioco? Che lo dica con coraggio e senza espedienti.

Deponga le armi di distrazione di massa e parli con onestà”. Il fondatore non era mai pubblicamente andato così dritto contro l’ex capo e in una telefonata con Conte si è discusso a lungo dell’opportunità di provocare la reazione del ministro “draghiano” con una domanda così diretta.

PAOLA ZANCA