Non per mancanza di talento, non per assenza di passione, ma perché abbiamo costruito un sistema che calpesta i ragazzi prima ancora che tocchino un pallone.
Siamo pieni di stranieri comprati a peso d’oro, ma incapaci di far crescere i nostri giovani.
Tutto ruota attorno ai soldi: non conta più chi sa giocare, conta chi può permettersi di farlo. Se sei un bambino e vuoi inseguire un sogno, devi sperare che la tua famiglia abbia il portafoglio giusto. Altrimenti resti fuori, guardi gli altri, ti spegni.
Ci sono procuratori che bussano alle porte dei genitori chiedendo denaro per bambini che non hanno nemmeno esordito in una squadra vera. E chi non paga? Semplice: non gioca, non viene convocato, non viene nemmeno guardato.
Così non crescono i giovani, così cresce solo l’ingiustizia.
Abbiamo dimenticato una verità elementare:
il talento non si compra.
Si riconosce, si coltiva, si protegge. E invece lo soffochiamo, lo facciamo scappare, lo costringiamo ad arrendersi ancora prima che abbia respirato il profumo dell’erba di un campo vero.
La Federazione dovrebbe aprire gli occhi, indagare, capire, intervenire. Perché troppe famiglie raccontano la stessa storia:
se non paghi, tuo figlio non gioca. E allora non è sport, non è educazione, non è sogno: è business. Sporco, brutale, cinico.
Se un ragazzo nasce con un dono, quel dono non appartiene né ai procuratori né ai dirigenti: è suo.
Il calcio dovrebbe soltanto permettergli di mostrarlo al mondo, non affogarlo nei conti bancari degli adulti.
Gianni Rivera



