Il taglio dei parlamentari è stato inutile: pochi risparmi e zero risultati

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Quattro anni fa una variegata maggioranza di partiti, come estremo e, pare finale, atto di purificazione collettiva e sottomissione a un certo modo populista di interpretare la democrazia, implorò gli italiani di confermare la riforma costituzionale che mozzava poltrone e cadreghe e portava il numero di senatori da 315 a 200 e il numero di deputati da 630 a 400.

Due anni fa, avviata la legislatura XIX, la riforma ha iniziato a rilasciare i suoi effetti che, a detta dei padri costituenti palesatesi per l’occasione, dovevano essere benefici per la spesa pubblica (meglio noto come lo spreco) e salvifici per la democrazia malaticcia. Né l’uno né l’altro. Non ci sono risparmi clamorosi, invero vanno rintracciati con il microscopio. Non si percepisce una ritrovata vitalità dei parlamentari, confinati da almeno tre decenni nel ruolo di chiassosi vidimatori di leggi pensate, studiate, corrette altrove. Al governo, e dove sennò?

Ridurre deputati e senatori da 945 esattamente a 600 non aveva una ragione specifica. Se non che facesse cifra tonda. Certo, le Camere pagano meno indennità e meno contributi, ma le cariche apicali, le commissioni permanenti, bicamerali, speciali, i lavori in assemblea, le delegazioni internazionali, eccetera, non si possono sopprimere e ugualmente costano, e come se costano, per quanto è cara, e ci è cara, la Repubblica parlamentare. Tutto è rimasto identico a sé stesso. E lo dimostrano i bilanci interni alle Camere. E lo esplicitano le statistiche di Openpolis. Un momento. Qualcosa è cambiato. Si è acuita la distanza fra elettori ed eletti. Per una formula micidiale: una legge elettorale senza preferenze, collegi sterminati, le province ininfluenti, la ritirata dei partiti.

Vediamo la voce soldi, che tanto appassiona. In un anno senza interruzioni e senza riforma (2021), il rendiconto di Montecitorio dichiarava una dotazione statale di 943 milioni di euro, 1,240 miliardi di entrate, 1,241 miliardi di spese impegnate, un avanzo di esercizio di 8,4 milioni. In un anno senza interruzioni e con la riforma (2023), il rendiconto di Montecitorio ha dichiarato una dotazione statale di 943 milioni di euro, 1,284 miliardi di entrate, 1,234 miliardi di spese impegnate, un avanzo di esercizio di 59 milioni. La colonna “spese impegnate”, dunque, differisce soltanto di 6 milioni di euro.

Carlo Tecce