IN ITALIA LA POVERTÀ SANITARIA TOCCA 400.000 PERSONE! LA LEGGE ANSELMI SOLO PIÙ UN MIRAGGIO

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Chissà che cosa direbbe la compianta Tina Anselmi, valorosa esponente del Veneto bianco e della classe dirigente democristiana post bellica, che dagli orrori del periodo storico degli anni settanta dello scorso secolo, segnati dagli attacchi terroristici allo Stato, fece brillare il raggio della speranza di un rinnovato patto sociale nel segno dell’attuazione del diritto costituzionale alla salute

Lei, prima ministra donna d’Italia posta al vertice del dicastero della sanità nel governo Andreotti di solidarietà nazionale, portò in approvazione la legge istitutiva del servizio sanitario della Repubblica, ispirata a princìpi di accessibilità, universalità e mutuabilità delle prestazioni diagnostiche, terapiche e farmacologiche.

Chissà quale sarebbe la reazione della madre del servizio sanitario nazionale di fronte al più recente aggiornamento statistico che indica in 400.000 il numero delle persone che, nel nostro Paese, versano in condizioni di povertà curativa, potendo spendere meno di dieci euro al mese per la propria salute e meno di 6, sempre su base mensile, per l’acquisto dei necessari medicinali.

Un cittadino mediamente benestante, al confronto, può dedicare a tali voci, rispettivamente, 67 e 26 euro al mese.

Basta recarsi in una qualunque farmacia, muniti della ricetta del proprio medico di famiglia a seguito di un consulto clinico ospedaliero, per sentirsi dire, dall’altra parte del bancone, che il tale farmaco o prodotto medicinale non è coperto dalla mutua, non è mutuabile, è a carico del richiedente ovvero è assoggettato a ticket.

Situazioni che riguardano casistiche sanitarie dalla cui osservanza dipendono il benessere e la prevenzione di malattie o indisposizioni anche gravi; ma che, ciò nonostante, non trovano corrispondente attenzione finanziaria dal servizio sanitario nazionale ovvero regionale.

Un ritornello tragico che ricorre oramai dal 1992, anno che ha segnato l’avvio di una visione privatistica strisciante del SSN, nel nome di invocati principi di efficientamento, razionalizzazione, lotta alle presunte spese eccessive e ai presunti ricoveri o prescrizioni inappropriate o non necessarie.

Cosicché, sulla base di non bene precisati criteri, è stata notevolmente ridotta la fascia in cui sono ricompresi i farmaci a carico dello Stato (o della Regione), mentre costituisce oramai la regola la circostanza di dover mettere mano al portafoglio quando ci si reca dal farmacista o quando ci si deve sottoporre a un esame diagnostico o a una seduta terapeutica di una certa vitale importanza.

Vero è che esiste sempre la possibilità di portare in detrazione parte di tali spese, ma ciò comporta che una parte di esse sia soggetta a franchigia, ossia non sia più recuperabile, e che comunque la detrazione sia minima e recuperabile in sede Irpef solo dopo un anno.

E gli incapienti, cioè coloro che per il livello estremamente basso della propria situazione reddituale non possono neanche presentare la dichiarazione del modello Unico? Devono avere la fortuna di risiedere in un Comune che abbia istituito un fondo emergenze sociali dedicato al contributo per l’acquisto di determinate classi di farmaci non mutuabili.

La prima legge di stabilità del governo Meloni, così come il primo documento di economia e finanza della Premier di centrodestra, non promette nulla di migliore per il prossimo triennio, rinviando alla crescita del PIL la possibilità di attuare scostamenti di bilancio per applicare la riforma fiscale o per finanziare nuovi strumenti di sostegno alle persone in povertà. Ma come si determina il concetto di povertà, oramai esteso a quella ex classe media che ha sì gli strumenti reddituali per magari provvedere alla salute personale ma che potrebbe non riuscire a coprire esigenze sanitarie improvvise dei familiari conviventi, minori inclusi?

Le rilevazioni condotte dal banco farmaceutico sono di una drammatica chiarezza, evidenziata dal presidente dottor Sergio Daniotti: oramai pure le famiglie tecnicamente non povere, definite tali secondo i parametri Istat, tendono a rinunciare alle cure in numero di 13 ogni cento, un’incidenza pari alla metà di quella che colpisce i nuclei assolutamente o relativamente poveri.

L’ex ceto medio, in forza del calo della natalità e della crescita dell’aspettativa media di vita, vede il 38 per cento dei propri introiti mensili eroso dalla spesa per l’acquisto dei farmaci. La responsabilità è di un sistema sanitario nazionale e regionale che ha rinunciato a coprire la spesa per i farmaci da banco, con l’ulteriore aggravante di non avere stabilito alcuna soglia distintiva tra chi è povero, chi non lo è e chi – per quoziente familiare – si colloca in una zona grigia di scivolamento verso il disagio.

Né il Pnrr dice alcunché in relazione al capitolo farmaceutico, che necessiterebbe di una riforma inclusiva totalmente assente da ogni dibattito politico.

Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI