Indicazioni dure arrivate dalla Fed

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La Fed, rispettando le attese, ha alzato i tassi di interesse di 75 punti base portandoli nella fascia 3-3.25%

L’istituto prevede poi di aumentare ulteriormente i tassi entro la fine dell’anno con un obiettivo al 4.40%, con prosecuzione del rialzo anche nel 2023 con un target al 4.60%, mentre nessuna riduzione è stata considerata fino al 2024. Si tratta di indicazioni che sono complessivamente più restrittive di quanto atteso: i rialzi complessivi entro fine anno ammonterebbero a 125 bp, portando i tassi ad un livello più alto delle previsioni su cui stazionerebbero per un periodo di tempo più prolungato.

A incidere negativamente sui mercati, tuttavia, è stata soprattutto l’ammissione da parte di Jerome Powell che una recessione potrebbe essere il prezzo da pagare per riportare l’inflazione su livelli accettabili. Inoltre, ha fornito indicazioni dure praticamente azzerando le stime sulla crescita del Pil Usa quest’anno (1.7% erano le stime precedenti).

Qual è stata la reazione dei mercati a tutto questo? L’azionario ha reagito negativamente incorporando nei prezzi i “venti contrari” che provengono dalle banche centrali e le conseguenze di una quasi certa recessione sui profitti aziendali. Le curve dei rendimenti governativi, dal canto loro, hanno accentuato la loro inversione con il 2 anni americano sopra il 4.10% e oltre 50 bp sopra il tasso decennale. La parte a breve delle curve vola in scia alle politiche monetarie della Fed, mentre la parte a lunga risponde stabilizzandosi (o scendendo) ai rischi di recessione che la stessa sta per innescare, recessione che potrebbe fermarne la mano nel medio termine.

Una curva dei tassi invertita è spesso un brutto presagio e anticipo di una recessione in arrivo. Il dollaro, infine, ha toccato il nuovo massimo da 20 anni sull’euro. E tanto più ampia è l’entità dell’inversione, tanto più profonda potrebbe risultare la gelata sull’economia. Anche il mercato azionario, con i multipli espressi in questa fase, indica una recessione imminente. Proprio per questo i rendimenti a più lungo termine si sono stabilizzati anziché salire.

Nonostante però la volatilità e le correzioni, le uscite dall’azionario sono state scarse, come risulta da diversi monitor: gli inflows si sono fermati, ma riscatti e vendite non sono ancora partiti in maniera significativa. Solo l’inizio di un calo dei profitti aziendali, con deterioramento dei bilanci, sarebbe in grado di far partire una vera fuga dall’asset. Ma un rallentamento dei profitti sembra assai probabile, con i costi a erodere i margini accompagnati da un calo del pricing power delle aziende.