La Repubblica Democratica del Congo (RDC), da tempo al centro della contesa globale per le materie prime strategiche, ha concesso sette nuovi permessi di esplorazione a KoBold Metals, la compagnia statunitense sostenuta dai giganti della tecnologia e della finanza come Jeff Bezos e Bill Gates e che vanta anche il sostegno di fondi del calibro di Andreessen Horowitz e colossi minerari come BHP Group ed Equinor. Dopo anni di predominio cinese, il governo di Kinshasa apre così le porte alla società statunitense che promette di rivoluzionare la ricerca mineraria con l’intelligenza artificiale.
Le nuove licenze riguardano vaste aree tra Manono (Tanganyika) e Malemba Nkulu (Haut-Lomami), comprendendo anche il maxi-giacimento di Manono, uno dei più grandi al mondo per litio. L’accordo quadro prevede l’esplorazione su oltre 1.600 km², con la prospettiva di trasformare la regione nel cuore della corsa al “nuovo petrolio” del XXI secolo: il litio, elemento imprescindibile per le batterie dei veicoli elettrici ma anche per pc, smartphone e altri dispositivi elettronici.
I sette permessi concessi a KoBold Metals sono la cartina al tornasole di una partita più grande: la transizione energetica globale non è solo questione di tecnologia verde, ma il nuovo volto di una guerra economica che ridefinisce rapporti di potere e sfere d’influenza. La missione di KoBold è chiara: individuare depositi di litio, cobalto, nichel e rame – i mattoni fondamentali della green economy – combinando tecnologie avanzate di mappatura e modelli di analisi dei dati.
In questo contesto, Bezos e Gates non sono semplici investitori: rappresentano la volontà di un’élite tecnologica americana di entrare nel cuore della catena del valore delle materie prime, assicurandosi margini di controllo anche sull’approvvigionamento. L’azienda ha già notificato alle autorità congolesi la volontà di risolvere la disputa legale che oppone Kinshasa all’australiana AVZ Minerals, estromessa dal progetto Manono e ora in arbitrato internazionale. KoBold promette, inoltre, assunzioni e investimenti infrastrutturali, ma la domanda di fondo resta: Kinshasa saprà trasformare la ricchezza mineraria in infrastrutture, sanità, istruzione, sviluppo per la sua gente, o si limiterà a cambiare padrone, passando dalla dipendenza cinese a quella americana?
La ricchezza mineraria, più che generare sviluppo, ha storicamente alimentato guerre, disuguaglianze e saccheggio. La Repubblica Democratica del Congo è un esempio di come la ricchezza mineraria del suolo africano sia oggetto di interessi geopolitici e della pratica di land-grabbing, «l’accaparramento di terre». Dietro la narrazione dell’innovazione e della transizione ecologica si ripropone uno schema antico: capitale occidentale, risorse africane, comunità locali marginalizzate e sfruttamento del lavoro minorile. Il Paese produce oltre il 70% del cobalto mondiale e gran parte dell’estrazione artigianale avviene in condizioni disumane. Come ha rivelato il Washington Post nel 2016, i decessi sono frequenti, insieme alla mole di lavoratori sottopagati e minorenni sfruttati nelle miniere alla stregua degli schiavi: parliamo di bambini tra i 6 e gli 8 anni, sottoposti a condizioni estreme, con paghe infime e grossi rischi per la salute. Un recente caso giudiziario negli Stati Uniti ha mostrato la difficoltà di chiamare alle proprie responsabilità i giganti tecnologici. Nel processo Doe v. Apple Inc. (2024), un gruppo di ex minori feriti nelle miniere congolesi ha accusato aziende come Google, Apple, Microsoft, Dell e Tesla di trarre profitto dal cobalto estratto con lavoro forzato. La Corte d’Appello di Washington ha, però, assolto le multinazionali, sostenendo che il semplice acquisto di minerale attraverso catene globali di fornitura non basti a dimostrare la «partecipazione a un’impresa» con chi sfrutta il lavoro minorile
Enrica Perucchietti


