E dove ci sono soldi non manca mai la Fiat, soprattutto se a sborsare i “danee” sono le casse pubbliche, che hanno sempre riempito i forzieri degli Agnelli e affini, con miliardi di ore di cassa integrazione, rottamazioni e contributi di ogni tipo, accompagnando il Gruppo negli alti e bassi della sua storia industriale.
Un’epoca che oggi pare distante anni luce, perché di quello che è stato il Lingotto di Torino non resta più niente, dopo il trasloco all’estero e poi la fusione con i francesi di Psa (Peugeot) nell’attuale holding, Stellantis. Anche ai vertici l’aria è cambiata, e chi detiene il comando, John Elkann, sta accumulando profitti miliardi nella cassaforte Exor, senza però perdere il vizio di famiglia di sedersi di tanto in tanto dal lato sbagliato della storia.
Una prassi appena rinverdita con l’ingresso nel capitale di due importanti aziende canadesi produttrici di uranio: la Cameco e la NexGen Energy. Una mossa per certi aspetti sorprendente, visto che il penultimo macroscopico errore industriale sotto la presidenza proprio di Elkann è stato il ritardo nello spostare il grosso della produzione delle auto dalle motorizzazioni con carburanti di origine fossile all’elettrico o per lo meno all’ibrido.
Un gap con i colossi mondiali del settore colmato dalla fusione con i francesi, ma che qui in Italia sta ancora presentando il conto. Pur incassando i continui sostegni pubblici al settore dell’automotive, invece di adeguare modelli e catena di produzione al futuro, l’azionista si è distribuito infatti munifici dividendi, lasciando il comparto in condizioni disperate, al punto che non esiste tutt’ora un vero piano per la transizione industriale, e giusto qualche giorno fa il Governo ha cortesemente bonificato 650 milioni di euro, impegnandosi a versare altri due miliardi nei prossimi due anni, in modo da scongiurare – si spera – un’emorragia di occupati che si aggira sulle 70mila unità, oltre alla delocalizzazione di interi stabilimenti all’estero.
Gaetano Pedullà



