La chiamano guerra. Ma le guerre presuppongono almeno due eserciti, due arsenali, due capacità di colpire. Qui no. A Gaza assistiamo a un’altra cosa: la più grande macchina militare del Medio Oriente, sostenuta e finanziata dall’Occidente, schierata contro una Resistenza che non ha che corpi, razzi artigianali, armi leggere, tunnel.
E i numeri parlano da soli.
Un esercito di 1.370 carri armati contro zero.
241 jet d’attacco contro nessuno.
43.407 veicoli corazzati contro il nulla.
352 pezzi di artiglieria semovente contro zero.
171 cannoni trainati contro niente.
48 elicotteri da guerra contro il vuoto.
Una colonna piena, l’altra vuota. La matematica della sproporzione. La Resistenza non ha niente di tutto questo. Nessun carro. Nessun aereo. Nessuna difesa antiaerea.
Dal 7 ottobre sono piovute bombe senza sosta. Oltre 40.000 attacchi aerei in meno di due anni. Settantamila tonnellate di esplosivo entro la primavera 2024, ultimo dato disponibile. Tonnellate che equivalgono a interi quartieri polverizzati.
Gaza è anche un laboratorio di annientamento a cielo aperto, dove si sperimentano armi di ultima generazione su una popolazione inerme.
Ogni volta che un portavoce parla di “due fronti”, quei numeri vanno ricordati. Ogni volta che qualcuno pronuncia la parola “guerra”, va risposto con quella tabella: una colonna piena, l’altra vuota. È la fotografia netta della sproporzione, la testimonianza scritta di un massacro travestito da conflitto.
“Guerra” è la parola comoda. Neutra, ripulita, utile ai comunicati stampa e alle cancellerie. Una parola che legittima l’inaccettabile e anestetizza le coscienze. Ma qui non c’è guerra: c’è sterminio, occupazione, apartheid.
Chiamare le cose col loro nome è già un atto di resistenza.
Alfredo Facchini


