La classe parlante

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Nelle democrazie esauste il popolo non vota più per cambiare la realtà, ma per interpretarla

È la finzione fondativa del nostro tempo, il trucco con cui la politica ha trasformato la partecipazione in spettacolo. La destra parla di sicurezza, la sinistra di diritti, ma in entrambi i casi si tratta di linguaggi sostitutivi, surrogati di un discorso ormai proibito: quello sul lavoro.

Il lavoro non è più un tema, è una condanna silenziosa, e la povertà non è più un problema collettivo ma una colpa individuale, una macchia morale da nascondere.

Le classi popolari, un tempo protagoniste di battaglie per la giustizia, oggi marciano per paura. Paura del diverso, del migrante, dell’altro; paura di perdere anche quel poco che resta. La destra ha imparato a parlare la lingua delle viscere: non promette futuro, promette difesa.

Offre appartenenza al posto dei diritti, risentimento al posto del salario, identità al posto di giustizia. Ha saputo trasformare la rabbia sociale in patriottismo economico, convincendo il povero che il suo nemico non è chi lo sfrutta, ma chi accetta di essere sfruttato a un prezzo più basso. Così dietro lo slogan “prima gli italiani” si nasconde un vecchio meccanismo industriale: comprimere i salari, dividere i lavoratori, stabilire gerarchie di miseria.

L’immigrazione, in questo schema, diventa la scusa perfetta per normalizzare lo sfruttamento. Non serve più nasconderlo: basta cambiare il lessico. Si parla di “emergenza”, di “integrazione”, di “umanità”, ma alla fine tutto converge sullo stesso obiettivo: mantenere basso il costo del lavoro e alto il livello del consenso.

Il capitale, che di ipocrisia vive da secoli, ha capito che la compassione funziona meglio della repressione. Non ha più bisogno di padroni con la frusta, gli bastano ONG con la missione.

Il profitto si traveste da solidarietà e il potere indossa il volto buono della beneficenza.

Chi lavora dodici ore in un magazzino a quattro euro l’ora non è più un oppresso: è un “nuovo cittadino”. E chi denuncia questa truffa viene immediatamente bollato come “reazionario”, come se la denuncia dello sfruttamento fosse di per sé un atto conservatore.

La sinistra, dal canto suo, non ha capito quasi nulla. Ha scambiato la lotta di classe con l’educazione civica, la trasformazione sociale con la sensibilizzazione, la rappresentanza con la testimonianza.

Parla un linguaggio corretto, addomesticato, inoffensivo. Difende simboli che non scaldano e cause che non incidono. Si commuove davanti alle parole ma resta indifferente ai fatti. Ha dimenticato che la dignità non è una questione culturale ma una condizione materiale. Il risultato è un Paese che non sa più chi rappresenta chi.

Le classi popolari hanno perso la loro voce e in cambio hanno ottenuto un microfono: parlano, gridano, commentano, ma non contano più. Il potere non ha bisogno di censurare: gli basta stancare.

Ha trasformato l’indignazione in intrattenimento, la protesta in contenuto, la sofferenza in statistica. Intanto la macchina economica continua a girare, producendo precarietà come un tempo si producevano merci. Ogni giorno la confeziona come flessibilità e la vende come opportunità.

Ogni lavoratore è diventato un ingranaggio di carne, programmato per durare fino all’esaurimento, istruito a sorridere, a essere motivato, a credere che tutto questo abbia un senso. Ma non c’è nessun senso, c’è solo la necessità. Chi possiede il capitale vive di libertà, chi lo genera vive di regole.

È la nuova architettura del mondo: il potere si muove, il lavoro resta fermo. Il capitalista non ha più patria, il lavoratore non ha più rappresentanza. È un mondo senza sinistra e senza popolo, ma con un’infinità di slogan. E tutti, da qualunque parte li si ascolti, dicono la stessa cosa: state buoni.

L’illusione del benessere è la più sofisticata delle dittature moderne. Non serve più opprimere: basta intrattenere. La precarietà, un tempo sinonimo di miseria, è stata ribattezzata “flessibilità”. Il controllo si chiama “software”, la sorveglianza “servizio personalizzato”.

E il cittadino medio, placato da una promessa di comfort a basso costo, accetta ogni abuso pur di non perdere la connessione. Il mercato non vende più solo beni: vende interpretazioni della realtà.

Ha insegnato alla gente come pensare, cosa desiderare e persino come ribellarsi, purché in modo innocuo, purché dentro la cornice prevista. La libertà di parola è salva, ma la parola non cambia più nulla. Le rivoluzioni non nascono più nelle piazze, ma nelle campagne pubblicitarie, e ogni forma di dissenso viene assorbita, digerita, rivenduta come nuovo prodotto.

La sinistra, travolta da questo meccanismo, ha dimenticato la sua missione originaria: difendere chi lavora, non chi si esprime. Si è borghesizzata nel linguaggio, nei costumi, nei valori.

Ha smesso di parlare al popolo per parlare del popolo, come se fosse un oggetto da studiare e non una classe da emancipare. Nei suoi congressi si discute di linguaggi inclusivi, ma nessuno parla dei turni massacranti nei magazzini o delle buste paga che non bastano neppure per l’affitto. È una sinistra che lotta per il diritto di essere ascoltata, non per quello di vivere dignitosamente.

Michele Agagliate