In Medio Oriente la parola “pace” non ha mai avuto un significato neutro. Ogni tregua, ogni cessate il fuoco, ogni trattativa porta con sé la consapevolezza che non si tratta di un punto d’arrivo, ma di un equilibrio provvisorio, fragile e reversibile. L’accordo recentemente imposto da — un compromesso più che una mediazione — non fa eccezione. È una tregua che si regge sul silenzio delle armi, non sulla ricomposizione delle cause del conflitto. In altre parole: si è fermato il rumore delle bombe, non la logica che le aveva rese inevitabili.
Dietro la firma di Washington si cela una pace “per modo di dire”, in cui la strategia della guerra preventiva non viene abbandonata ma congelata, pronta a riemergere al primo segnale di debolezza. Israele conserva la libertà d’azione, l’Iran riorganizza le proprie reti regionali e l’Europa, ancora una volta, osserva e tace.
L’eredità della guerra preventiva
Per anni la dottrina israeliana si è basata su un principio semplice e brutale: colpire prima di essere colpiti. Una prassi consolidata che ha trovato giustificazioni politiche, strategiche e, sempre meno, giuridiche. Raid contro basi iraniane in Siria, attacchi mirati contro comandanti di milizie, omicidi di scienziati nucleari, incursioni periodiche in Libano e Gaza. Questa logica ha avuto due effetti immediati: impedire agli avversari di consolidare le proprie capacità militari e normalizzare, agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, una forma di guerra permanente a bassa intensità.
Con l’accordo imposto da Trump, questa dottrina non scompare: semplicemente si traveste. La retorica della “difesa preventiva” lascia spazio a un linguaggio diplomatico calibrato, ma i margini di manovra restano intatti. Israele mantiene il diritto unilaterale di intervenire contro “minacce emergenti”, mentre agli attori regionali viene chiesto solo di evitare risposte troppo vistose che possano compromettere la tregua. È la pace come anestesia, non come soluzione.
Il teatro regionale dopo la tregua
Sul terreno, la situazione resta tesa. In , la crisi umanitaria non si è risolta: è stata semplicemente messa tra parentesi. Migliaia di famiglie vivono ancora in condizioni precarie, mentre i fondi per la ricostruzione arrivano lentamente e vengono filtrati attraverso meccanismi di controllo politici e militari. In , non ha smantellato il suo arsenale, ma ha sospeso le operazioni dirette per calcolo strategico. In , i raid mirati contro infrastrutture e depositi di armamenti continuano sotto traccia, coperti da un linguaggio diplomatico che parla di “incidenti limitati” e “azioni difensive”.
L’Iran, da parte sua, sta utilizzando questa pausa per consolidare le proprie vie di approvvigionamento e intensificare i rapporti con Russia e Cina. La cosiddetta “profondità strategica” iraniana non è stata colpita al cuore: è stata riorganizzata, decentralizzata, resa più elusiva.
L’Europa nel ruolo di spettatore
E poi c’è l’Europa. Un continente che un tempo cercava di rappresentare una terza via tra blocchi contrapposti, e che oggi non riesce più a imporre alcuna visione autonoma. La diplomazia europea non detta le regole: le subisce. Parla di diritto internazionale mentre altri decidono quando sospenderlo e quando riattivarlo. Si trincera dietro dichiarazioni umanitarie, ma resta ai margini delle scelte strategiche.
Il nuovo accordo di Trump ha confermato questa irrilevanza. I governi europei sono stati informati, non consultati. Hanno applaudito la tregua senza avere alcuna leva per influenzarne i contenuti. Ancora una volta, la sicurezza energetica e la paura dell’instabilità hanno prevalso su qualunque tentativo di politica estera autonoma.
L’ordine giuridico svuotato
La pace attuale è costruita sull’erosione del diritto internazionale. La guerra preventiva, pur non essendo prevista da alcuna norma, è stata di fatto accettata come strumento legittimo. Questo crea un precedente che va ben oltre il Medio Oriente. Se oggi Israele può rivendicare il diritto di colpire per prevenire, domani altri Stati — in Asia, in Africa, persino in Europa — potranno invocare lo stesso principio per giustificare atti unilaterali. È un indebolimento strutturale delle regole globali che trasforma l’eccezione in consuetudine.
Giuseppe Gagliano



