La povertà non è un problema, è uno spettacolo
La gente la guarda da lontano, come si guarda una serie su Netflix: con un po’ di pena, un po’ di curiosità morbosa, e la certezza che tanto a me non capiterà mai.
La povertà è diventata il reality più seguito al mondo, solo che i concorrenti non vincono mai niente. Si alzano alle 6, lavorano come muli, e vengono giudicati da chi si lamenta del caffè troppo freddo a colazione. E poi arriva la Crif, Experian, Cerved: i nuovi sacerdoti del capitalismo digitale. Non confessano peccati, ma debiti.
Ti classificano con un numero, e in base a quello decidono se meriti fiducia o fame. Non importa chi sei, cosa hai vissuto, quante volte ti sei rialzato: se il tuo punteggio è basso, sei spazzatura finanziaria.
E il mondo politichese e le banche applaude. Perché in fondo la povertà serve: serve a far sentire i ricchi più buoni, i medi più tranquilli, e i disperati più colpevoli. È il carburante invisibile del sistema: ti tengono povero, ma ti convincono che la colpa è tua.
Ti dicono sogna in grande, ma poi ti sbattono in faccia il mutuo negato, il contratto a termine e il prezzo della benzina. Ti parlano di meritocrazia, ma non ti dicono che la gara è truccata fin dall’inizio.
La povertà non è una malattia: è una condanna a vita, inflitta da chi gioca a fare Dio con i soldi degli altri. E noi, nel frattempo, applaudiamo i milionari che ce l’hanno fatta, senza vedere i cadaveri sociali lasciati lungo la strada.


