La resa dell’acciaio

0
4

La Germania, locomotiva del continente, ha spento i motori. L’Italia arranca. La Francia, pur nel mezzo di una crisi politica profonda, regge l’urto grazie alla sua rete nucleare, che nel 2025 copre oltre il 67% del fabbisogno elettrico. Non è la politica a tenerla in piedi, bensì una disponibilità energetica costante, frutto di scelte industriali lungimiranti.

Nel frattempo, mentre le fabbriche chiudono, i capitali migrano verso lidi più docili, dove l’energia costa meno e le regole sono più morbide: India, Cina, USA. È la finanziarizzazione dell’economia che avanza, travestita da transizione verde, da competitività, da modernizzazione. Ma sotto il vestito resta una domanda che scotta: chi produrrà, domani, ciò che oggi stiamo dismettendo?

Uno spettro si aggira per l’Europa, e non è quello evocato da Marx. È lo spettro della deindustrializzazione: una lenta ma inesorabile erosione del tessuto produttivo continentale, mascherata da sostenibilità e innovazione. Non si tratta di una crisi ciclica, né di una sbandata temporanea: è una traiettoria ben delineata. L’ISPI, già a inizio anno, l’aveva messa a fuoco nel suo rapporto L’ora della verità: l’Europa rischia di scivolare in una spirale di smantellamento industriale, per effetto di una convergenza di fattori strutturali — energetici, geopolitici, normativi e finanziari.

Il caso tedesco è emblematico. Dal 2020 a oggi, la produzione industriale ha perso circa il 9%. Il settore automotive, storicamente trainante, è in piena crisi: oltre 90.000 posti di lavoro sono a rischio entro il 2030, con 18.000 già persi nel solo 2025. La produzione di auto è scesa da 5,6 milioni nel 2014 a meno di 4,1 milioni nel 2024, segnando un calo del 27,4%. L’effetto domino si propaga inesorabilmente, estendendosi a Polonia, Repubblica Ceca, Italia — tradizionali fornitori di componenti — che subiscono contraccolpi pesantissimi.

La crisi non è solo economica, ma anche geopolitica e sociale. La chiusura degli impianti nucleari tedeschi nel 2023, il sabotaggio del Nord Stream, la sostituzione del gas russo con GNL americano: tutto ha contribuito a rendere l’energia europea tra le più care al mondo.

Secondo il Centro Studi Eurasia e Mediterraneo, nel 2025 le imprese italiane affrontano un rincaro del 19,2% dei costi energetici, con aumenti del 210,5% per il gas e del 186,8% per l’elettricità rispetto al 2020. Una enormità impensabile appena qualche anno fa.

Per questo, seppure in ritardo, nel febbraio 2025 la Commissione Europea ha lanciato il Clean Industrial Deal, un piano da 100 miliardi di euro per rilanciare la competitività e accelerare la decarbonizzazione. Tuttavia, i numeri restano impietosi: -3,2% di produzione industriale nel 2024, -1,6% nel 2025. L’emorragia di investimenti continua a spostarsi implacabilmente verso USA, Cina e India. Il piano è certamente ambizioso, ma rischia di arrivare tardi e con strumenti troppo deboli.

E mentre l’Europa smantella, altrove si costruisce. L’automotive cinese, ad esempio, sta spopolando in Europa. Nel 2025, i marchi orientali hanno conquistato oltre il 5,5% del mercato europeo, con una crescita del 79% rispetto all’anno precedente. BYD, MG (di proprietà SAIC), Great Wall Motors e Geely (che controlla anche Volvo e Lynk & Co) sono i protagonisti di questa scalata. BYD ha addirittura superato Tesla in alcuni mercati chiave, mentre MG è tornata a brillare con modelli elettrici accessibili, e Lynk & Co ha introdotto formule di abbonamento che stanno rivoluzionando il concetto stesso di possesso.

Gianvito Pipitone