Altro che sostegni o misure attive di inclusione destinate a sostituire il reddito grillino di cittadinanza e ad accompagnare gli ex percettori verso i lidi occupazionali: in Italia, il disimpegno statale, prima come gestore e ora come socio industriale rilevante, rischia di completare il funesto disegno avviato agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo, quando la cessione di segmenti strategici della nostra manifattura e della nostra finanza, bancaria e assicurativa, agì da preludio alla successiva perdita della sovranità monetaria
Nella pratica, e ciò è una delle ragioni che portano a ridurre progressivamente, di anno in anno, di esercizio in esercizio, gli spazi fiscali a disposizione di qualsiasi Governo a prescindere dal suo indirizzo politico amministrativo, le nostre Istituzioni elettive e ministeriali statali si trovano a dover gestire uno stock di debito pubblico cresciuto, obiettivamente per alcuni aspetti a dismisura e non sempre con razionalità, per fattori nazionali e oggi totalmente soggetto a una serie di andamenti e condizionamenti extra e sovranazionali.
Su capitoli come energia, carburanti, oneri finanziari, si susseguono manovre di bilancio che giocano in difesa, cercando di mitigare i costi sociali a carico delle categorie più vulnerabili, senza tuttavia riuscire a incidere più di tanto sulle fonti dei problemi, proprio perché la fine di un sistema industriale misto ha reso prevalenti le variabili finanziarie il cui risanamento impone la cessione di quanto rimasto della identità manifatturiera dell’azienda Italia.
Quanto successo nel settore automobilistico è tristemente emblematico, e trova conferma nelle estreme difficoltà del Governo a dare seguito alla più volte annunciata ma sempre rimandata stipula dell’accordo programmato con Stellantis – la fu Fiat FCA – per riportare la produzione nazionale di vetture familiari alla soglia del milione di unità annue, livello considerato minimo indispensabile per restituire prospettiva autosufficiente agli stabilimenti della ex casa torinese delle quattro ruote e ripristinare, fra maestranze non ancora pensionabili e nuove assunzioni, l’occupazione venuta meno nel corso degli ultimi tre decenni. Inizialmente fissata per lo scorso luglio, poi per la fine di questo mese, l’intesa è stata calendarizzata dal ministro Adolfo Urso a una data non meglio precisata da qui alla conclusione di quest’anno.
Ciò è sintomatico delle nuove linee di tendenza che vedono i costruttori di veicoli puntare su margini economici crescenti a fronte di volumi più ridotti e dell’applicazione di prezzi unitari di fascia alta, e ciò anche per rispondere alle ideologiche direttive verdi della UE sulla lotta ai motori endotermici e sulla transizione all’elettrico resa così integralista da escludere perfino la mediana, e più favorevole per noi, opzione ibrida o “bifuel”.
Non sono migliori gli scenari della Telecom Italia, sulla cui infrastruttura di Rete è in corso il confronto di palazzo Chigi con il fondo americano Kkr, interessato ad acquisire la proprietà della nostra “autostrada telefonica” che, nel caso si materializzasse una simile ipotesi, sarebbe condivisa con l’azionariato della Cassa depositi e prestiti (CDP): quest’ultima il custode pubblico del risparmio postale degli Italiani di cui si era auspicato e vaticinato da più parti un ingresso nel capitale sociale di Stellantis a ex aequo con la quota facente capo al Governo francese. Non ci è dato sapere se CDP sarà in grado di evitare che gli statunitensi bissino quanto già malauguratamente fatto alla Magneti Marelli, ex galassia Fiat, con la cessazione dello stabilimento di Crevalcore nel bolognese, chiusura non ancora definitiva in attesa di un incontro ministeriale fissato per questo giovedì.
Altrettanto incerte appaiono le sorti di Ita, la start-up nata dalla compagnia aerea di bandiera Alitalia e in predicato di aprire le porte del proprio capitale sociale ai tedeschi di Lufthansa, sulla base dell’accordo siglato con il ministro leghista alle finanze, Giancarlo Giorgetti, ma sulla notifica del quale, alla Commissione UE di Bruxelles, si è aperto un incidente diplomatico fra Giorgia Meloni e Ursula von Der Leyen.
A planare basso è purtroppo pure il settore dell’acciaio, un tempo presidiato dalla Ilva di Taranto, oggi Acciaierie d’Italia in condominio con gli indiani di Mittal e nella costante attesa di un’evoluzione verso la siderurgia green sempre annunciata, anche con il presunto assist dei fondi Pnrr, ma sulla cui strada permangono divergenze fra Governo e soggetti privati, fra piani industriali e strutture burocratiche pubbliche, fra propositi innovativi e liquidità piangente.
Inoltre dobbiamo ricordare, non ultimo per ordine di importanza, l’ambito bancario, nel quale il dicastero dell’economia e delle finanze, diretto da Giorgetti, deve decidere che fare della propria quota maggioritaria nella compagine del Monte dei Paschi di Siena, la cui privatizzazione il Governo Meloni intende gestire promuovendo la creazione di un aggregato creditizio che sia campione nazionale nel campo della raccolta e tutela del risparmio e del sostegno all’economia reale e delle PMI.
Partite da cui dipende la salvaguardia attuale di oltre un milione di occupati e futura della stessa identità economica distintiva dell’Italia in Europa e nel club del G20.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




