Chissà che cosa direbbe, a sfogliare le più recenti statistiche su liste d’attesa e dualismo tra pubblico e privato, la compianta Tina Anselmi, ministra democristiana della Salute e madre del sistema sanitario pubblico universale e universalistico che venne introdotto alla fine degli anni Settanta grazie a un provvedimento che rappresentò una delle più grandi conquiste civili e sociali dal secondo dopoguerra e una delle principali attuazioni costituzionali
Sia chiaro che il punto non è l’inquadramento giuridico delle strutture preposte a garantire la effettività del diritto alla diagnosi, alla terapia, all’assistenza e alla degenza dei cittadini con minore capacità contributiva. Il punto è quello relativo al de-finanziamento, in termini reali, del fondo nazionale per il servizio sanitario, lo strumento da cui attingere tanto per fare fronte all’acquisto di una siringa, quanto per attuare una contrattazione integrativa per evitare il grande esodo tuttora in corso di medici e infermieri dai nostri ospedali pubblici da Nord a Sud.
Uno dei principali errori, compiuti tanto dal governo Conte 2 quanto dal successore Mario Draghi, ossia dai due Premier che rispettivamente negoziarono i fondi europei del Pnrr e li suddivisero per settori macro, ha riguardato sia l’esiguità, rispetto al totale degli oltre 200 miliardi del recovery plan, della quota assegnata al SSN, sia l’oggetto della sua destinazione. Con il rischio, niente affatto remoto, di ritrovarci con degli scatoloni di cemento variamente denominati – case della salute, ospedali di comunità, eccetera – ma vuoti poiché privi delle risorse correnti per l’ordinaria gestione e per lo stesso pagamento delle bollette di luce e gas.
I rilievi statistici sono tragicamente chiari, e hanno portato governatori e amministratori regionali di centro, destra e sinistra, dalla Lega al PD, a convergere su un unico documento, dai toni ultimativi, notificato ai ministri Giancarlo Giorgetti e Orazio Schillaci, titolari delle deleghe all’economia e finanza e alla sanità nel governo di Giorgia Meloni.
Le liste di attesa rappresentano il nuovo “muro di Berlino” che divide chi può da chi non può, chi ha maggiore capacità contributiva e chi no, e chi non può – oramai un cittadino italiano su dieci – rinuncia a curarsi o rinvia sine die interventi anche urgenti.
Altro che reddito di cittadinanza: si dovrà presto arrivare a un reddito di cura, per impedire che il nostro Paese si trovi a dover rinunciare totalmente a strategie di prevenzione e di tempestività e appropriatezza delle prestazioni, che sono un vincolo imposto dalla stessa Unione Europea per la sicurezza della circolazione delle persone all’interno del vecchio Continente.
Il presidente della conferenza delle Regioni, il leghista friulano Massimiliano Fedriga, utilizza gli stessi toni dell’assessore emiliano romagnolo del centrosinistra Raffaele Donini, il cui grido di dolore è lo stesso del collega piemontese e alto dirigente della Lega Luigi Icardi: il sistema è al collasso, e manca poco per dichiararlo tale, a causa di piani commissariali e di rientro che negli anni hanno imposto riduzioni dei servizi e incrementi delle imposte addizionali, e che hanno portato le amministrazioni regionali a operare con fondi straordinari non più ripetibili nel prossimo futuro. Addirittura all’appello mancano i quasi 4 miliardi che le Regioni hanno dovuto anticipare per fronteggiare le prime due ondate pandemiche del covid e del cui rimborso non vi è alcuna traccia.
Il problema è duplice, e riguarda non solo il sotto o de-finanziamento del fondo per il servizio sanitario nazionale, ma altresì la sua struttura o composizione, dal momento che al suo interno si registrano eccessi di accantonamenti su talune voci come quelle relative a contratti aziendali mai rinnovati per il personale, mentre viceversa è cresciuta a dismisura la spesa per i medici a gettone utilizzati per fronteggiare specifiche emergenze come quelle pandemiche.
Che l’Italia sia rimasta enormemente indietro, nel garantire la effettività del diritto universale alla salute, tramite un’organizzazione istituzionale e amministrativa della sanità di tipo universalistico, sono i raffronti con gli altri principali Paesi UE ed extra UE del vecchio Continente: per assicurare una idonea copertura pro capite in termini di prestazioni, ai livelli britannici, il fondo sanitario nostrano dovrebbe essere integrato di almeno 20 miliardi; mentre per poter eguagliare i vicini di casa francesi, piuttosto che i tedeschi, allora la dotazione addizionale dovrebbe essere di 40 miliardi annui in più, in pratica quasi una volta e mezzo il budget complessivo della manovra di bilancio del governo Meloni per l’anno in corso.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




