La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha emesso una sentenza storica. Temo però che non ci sarà una reale conseguenza alla condanna dell’Italia per aver messo a rischio la vita degli abitanti della Terra dei Fuochi.
È dal 1988 che si è consapevoli di costanti sversamenti e intombamenti di rifiuti ordinari e tossici nelle campagne casertane e napoletane, che hanno ucciso prima le colture di pomodori, di melanzane e carciofi, poi hanno avvelenato pesche, mandorle, albicocche e mele annurche; una volta compromesse le falde acquifere e i fiumi, hanno fatto ammalare le greggi e gli armenti. Infine hanno iniziato a cadere gli esseri umani. Eppure la politica locale e nazionale ha considerato il problema un’esagerazione, una problematica legata al disordine della gestione rifiuti, invece che un sistema criminale complesso, da centinaia di milioni di euro, in cui impresa, camorra e politica si alimentavano a vicenda.
L’espressione Terra dei Fuochi la usai come titolo di un capitolo di Gomorra: creò un’immediata suggestione. L’avevo mutuata dal Rapporto Ecomafie di Legambiente del 2003. Quasi nessuno ricorda perché è chiamata così. L’immagine fu proprio quella di Magellano, che quando navigò lo stretto sudamericano tra l’Atlantico e il Pacifico vide numerosi falò accesi sulle coste frastagliate. Quei fuochi indussero Magellano a battezzare l’arcipelago sudamericano «Terra del Fuoco».
Attraversando le terre campane dall’asse mediano, la superstrada dei comuni dell’entroterra a Nord di Napoli, per decenni l’orizzonte era attraversato (e lo è ancora) da fumi neri, i fuochi che venivano accesi per bruciare rifiuti di ogni genere, con l’obiettivo di fargli perdere volume e occupare quanto meno suolo possibile, lasciando spazio ad altra monnezza. I fuochi bruciavano rifiuti speciali — copertoni, vernici, olii esausti, tessuti, medicinali — mentre i barili di rifiuti tossici che viaggiavano sui camion venivano intombati così com’erano, spesso insieme al pianale del mezzo in cui erano stipati.
Denunciare è stato difficilissimo. L’ispettore della Criminalpol Roberto Mancini, che si ammalerà e morirà di cancro a causa delle investigazioni condotte su quelle aree, denunciò inascoltato per anni quello che stava accadendo. Nel 2012 i documenti prodotti dall’Istituto nazionale per i tumori Pascale di Napoli dimostrano che sul territorio provinciale, nei vent’anni precedenti, ci sono stati incrementi percentuali del tasso di mortalità per tumori del 47% fra gli uomini e del 40% tra le donne, nel Casertano rispettivamente del 28,4% e del 32,7%, a fronte di tassi tendenzialmente stabili o addirittura in diminuzione nel resto d’Italia.
Ma nonostante questi dati allarmanti, lo stesso direttore del Pascale, Tonino Pedicini, due anni dopo denunciava un atteggiamento negazionista della comunità scientifica mirato solo al quieto vivere. Nel 2015, nella zona di Calvi Risorta, nel Casertano, il Corpo Forestale dello Stato individua la più grande area di sversamento di rifiuti tossici d’Europa. Secondo uno studio del 2016 dell’Istituto Superiore di Sanità, nella Terra dei fuochi c’è un’incidenza dei tumori superiore dell’11% rispetto alla media nazionale.
Per anni la politica di ogni colore ha mentito o ignorato. Nessuno è riuscito a — o ha voluto — bonificare e recuperare davvero queste terre, perché i risultati sarebbero stati capitalizzabili politicamente solo dopo molti anni e quindi incompatibili con i tempi della politica. I vantaggi sarebbero stati nulli, perché visibili solo molto tempo dopo, e nessuna politica locale può avere la forza per affrontare apertamente il dramma dello sversamento e dell’avvelenamento.
Di fatto, negare è sempre stato più conveniente di ammettere esplicitamente e iniziare un percorso di risanamento. Nel 2023, nonostante anni di studi degli istituti preposti, di denunce delle associazioni sul territorio, di continue morti per cancro nell’area, il presidente della Regione Vincenzo De Luca arrivò a dire che solo l’1% del territorio non era coltivabile.
Roberto Saviano



