La violenza continua: oltre la giustizia

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La condanna all’ergastolo di Filippo Turetta per il femminicidio di Giulia Cecchettin rappresenta un punto fermo, una pietra miliare nella lotta contro la violenza sulle donne, ma non è sufficiente

Come psicologa, esperta in vittimologia e direttrice per i diritti delle donne della IPO International Police Organization, sento il peso di questa sentenza non solo come un atto di giustizia, ma come un monito, un grido silenzioso che echeggia nel vuoto lasciato dalla tragedia di Giulia e risuona in tutte le case dove la violenza si nasconde.

La vittimologia ci insegna che la violenza non è un evento isolato, un atto improvviso e inspiegabile. È un processo, un crescendo di abusi, minacce, silenzi e sottomisssioni che si dirama come un’onda d’urto che coinvolge non solo la vittima diretta, ma anche i suoi familiari, in particolare i figli.

La violenza assistita, infatti, lascia un’impronta indelebile sull’anima dei bambini, trasformando la loro infanzia in un incubo. Questi piccoli testimoni silenziosi, spesso invisibili, crescono nell’ombra del terrore, imparando a normalizzare l’inaccettabile.

Sono costretti a crescere in un clima di costante paura e insicurezza, un clima che li rende vulnerabili, predisponendoli a diventare vittime o, tragicamente, aguzzini nel futuro.

Il caso Turetta ci insegna una lezione amara: non dobbiamo sottovalutare i segnali premonitori. Troppo spesso, si tende a minimizzare i comportamenti aggressivi o controllanti di un partner, liquidandoli con frasi come “è solo geloso”, “è un bravo ragazzo”, “si è lasciato andare”.

Ma questi segnali, apparentemente insignificanti, possono essere campanelli d’allarme di una spirale di violenza che può culminare nel tragico epilogo. Nel caso di Turetta, come in molti altri casi simili, i segnali erano evidenti, ma sono stati ignorati, sottovalutati, o peggio, giustificati.

L’educazione dei giovani è fondamentale nella prevenzione della violenza, ma è solo un tassello, un piccolo pezzo di un puzzle molto più grande. Dobbiamo guardare oltre, dobbiamo penetrare il nucleo familiare, quel microcosmo dove spesso si annida la violenza e dove i bambini sono spettatori impotenti. È qui che dobbiamo intervenire, con programmi mirati che offrano supporto alle donne, protezione ai minori e riabilitazione per i responsabili.

Non basta denunciare, non basta condannare. Serve un cambio di paradigma, una rivoluzione culturale che scardini le radici della violenza, che abbatta il muro di silenzio che protegge i carnefici.

Serve un impegno collettivo, un lavoro coordinato che coinvolga istituzioni, operatori sociali e la comunità tutta. Serve una rete di protezione forte e capillare, in grado di intercettare i segnali di pericolo e di fornire alle famiglie a rischio un supporto concreto e tempestivo.

La sentenza Turetta ci ricorda il prezzo tragico dell’inazione. Non possiamo permetterci di perdere altre Giulia.

Dobbiamo agire ora, con determinazione e coraggio, per costruire un futuro libero dalla violenza, un futuro dove i bambini possano crescere senza la paura di assistere alla distruzione della loro famiglia e dove le donne possano vivere senza il timore costante della violenza. La memoria di Giulia sia un faro che illumina il cammino verso un mondo migliore, un mondo senza più femminicidi.

Dr.ssa Klarida Rrapaj