L’arte sottile di sabotare la pace

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Così il ministro Crosetto liquida la missione umanitaria diretta a Gaza. Con la disinvoltura di chi commenta una semifinale di Champions. Una frase che, se non fosse tragica, sarebbe comica. E che riassume una postura istituzionale prudente, distante, forse persino rassegnata: non disturbare il conducente, non sostenere chi porta aiuti, non difendere il diritto internazionale. Limitarsi a sperare — magari con un pizzico di cinismo — che “almeno siano solo arresti”.

A rafforzare questa linea, interviene il ministro Tajani, che ci rassicura con tono grave: “I rischi ci sono.”

Grazie, ministro. Lo sapevamo. Ma non è questo il punto.

Il punto è che la Flotilla, composta da attivisti, parlamentari e operatori umanitari, è partita per compiere un gesto semplice e potente: consegnare aiuti a Gaza. Un gesto che sfida l’assedio e riafferma il diritto alla solidarietà.

Un’azione impari, certo. Esposta, controversa, asimmetrica.

Ma anche una delle poche iniziative civili e coraggiose che questo tempo riesce ancora a generare.

E proprio per questo, è anche una missione politica. Perché la Politica — quella con la maiuscola, intesa come insieme delle istituzioni chiamate a esercitarla — ha smesso di agire, di mediare, di difendere.

Spesso voltandosi dall’altra parte.

O fingendo di non vedere.

E quando la Politica rinuncia al proprio mestiere, è la società civile a tentare di colmare il vuoto. Con mezzi fragili, ma con più coraggio.

Di fronte a tutto questo, il governo italiano ha scelto una linea di cautela. Ha evocato il rischio di arresti, ma non ha parlato di pace. Né di dignità. Né di diritto. Solo di arresti.

A rendere il quadro più complesso, interviene Ankara. Il presidente Erdoğan, accreditato nei colloqui tra Hamas e Israele in Qatar, ha fatto sapere di essere disposto a scortare la Flotilla una volta uscita dalle acque territoriali. Un gesto di assertività che anche l’Italia avrebbe potuto valutare. Invece, ha preferito una posizione più defilata.

Come se non bastasse, le dichiarazioni turche arrivano all’indomani della proposta in 20 punti di Trump per il processo di pace, accentuando la pressione diplomatica su Palazzo Chigi. Mentre altri paesi si muovono — chi con diplomazia, chi con pragmatismo — l’Italia resta ferma. Impantanata in una prudenza che rischia di apparire come complicità. In una neutralità che somiglia all’immobilismo. In una difesa “a zona” che sa di fuga.

A conferma di questa paralisi, nessuna parola sulla fine dell’assedio. Nessun sostegno esplicito alla consegna degli aiuti. Nessuna presa di posizione netta sul diritto internazionale. Solo dichiarazioni frammentarie, battute informali, e una retorica che tende a dividere più che a proteggere.

Eppure, in un tempo in cui la diplomazia rischia di ridursi a mera coreografia, la Flotilla poteva rappresentare un gesto concreto. Un’azione che non chiedeva medaglie, ma rispetto. Che non cercava protagonismi, ma risultati. E che avrebbe meritato, almeno, di non essere ostacolata.

Il governo, invece, fin dall’inizio, ha interpretato la missione attraverso una lente parziale. E ha scelto di non sostenerla. Non necessariamente per motivi logistici o per prudenza diplomatica, ma forse per una distanza culturale e politica rispetto al suo significato profondo.

Scelta che, a ben vedere, si è rivelata controproducente. Perché la Flotilla, con la sua nudità disarmata, espone ciò che la politica tende a rimuovere: il fallimento sistemico, l’indifferenza istituzionale, la rimozione strategica del dolore.

Ed è probabilmente proprio questo che inquieta. A Roma come a Bruxelles, si teme la sua riuscita. Si teme che laddove governi e istituzioni hanno fallito — o non hanno nemmeno provato — un gruppo di cittadini, attivisti, testimoni riesca a riaprire uno spazio di senso. Di umanità. Di azione.

E così, qualsiasi siano gli esiti di queste ultime ore — che hanno visto affacciarsi all’orizzonte la possibilità di un cessate il fuoco dell’IDF sulla Striscia di Gaza — una cosa è certa: non sarà questo governo a rivendicare il merito. Né la conduzione diplomatica della Commissione Europea, che ha preferito fino alla fine il silenzio alla responsabilità, la cautela alla solidarietà.

Gianvito Pipitone