L’eterna caccia alla magistratura

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E adesso? Cosa dobbiamo aspettarci, di fronte al terzo no stavolta pronunciato dalla Corte d’Appello di Roma, sul trattenimento dei 43 profughi deportati nei lager d’Albania? Giorgia Meloni, con l’elmetto ormai calato sulla testa, manderà le sue camicie nere a manganellare le toghe bolsceviche che tramano contro di lei? Se stiamo agli ultimi esagitati proclami della Sorella d’Italia, tutto è possibile.

Già il farlocco «avviso di garanzia» sul caso Almasri l’aveva «mandata ai matti», parole sue. Ora l’ennesimo schiaffo, incassato proprio su uno dei suoi campi di battaglia preferiti, la lotta ai migranti clandestini da sbolognare in outsourcing all’amico Edi Rama. Ad Atreju l’aveva urlato più volte, con gli occhi fuori dalle orbite, di fronte alle sue milizie in estasi: «L’operazione Albania fun-zio-ne-rà!». E invece non funziona. Non funziona più niente, in questa Italia del giorno della marmotta. Siamo tutti prigionieri involontari di una falsa “guerra dei trent’anni” che la politica combatte contro la giustizia, fingendo di esserne vittima.

Meloni che accusa i magistrati di voler governare il Paese è il Berlusconi reincarnato che tacciava le procure rosse di eversione. La Sorella d’Italia che dice «i giudici non possono decidere tutto perché nessuno li ha eletti» suona la stessa musica del Cavaliere che inveiva contro la magistratura «cancro da estirpare» perché «concepisce il proprio ruolo in termini di egemonia rispetto a una politica che esprime la volontà popolare».

Dal Caimano di Arcore all’Underdog della Garbatella, la musica è la stessa: una toga per nemico. Il paradosso è che la resa dei conti finale con il potere giudiziario la consuma adesso proprio una nipotina del Msi di Almirante, intriso di giustizialismo legalitario e securitario. E che a portare avanti le presunte “riforme dell’ordinamento giudiziario” — le stesse pensate da Licio Gelli, per rimetterlo sotto il tacco dell’esecutivo — sia proprio una ragazza entrata in politica per rabbia di fronte al corpo straziato di Borsellino in Via D’Amelio.

Così è, se vi pare. Dal 1994 in poi questa è la destra, non più solo italiana. The Donald, nel delirante comizio dell’Inauguration Day, fa lo stesso: «La bilancia della nostra giustizia sarà riequilibrata, la violenta e ingiusta trasposizione dell’amministrazione giudiziaria in un’arma contro la politica finirà». La miscela esplosiva e seduttiva tra populismo e autoritarismo abbatte decenni di cultura costituzionale e di misura istituzionale, lasciando campo libero ai nuovi unti del Signore: il popolo ci ha votato, dunque siamo legibus soluti. Tutti gli altri poteri dello Stato sono sott’ordinati, proprio perché non eletti e dunque privi di legittimità popolare.

Nessun organo “terzo” ci può controllare, inquisire, condannare: le urne ci conferiscono immunità di diritto e/o impunità di fatto. Berlusconi provò a proteggersi dai processi con gli scudi del lodo Schifani, del lodo Alfano e di una dozzina di leggi ad personam. Meloni si accontenta per ora dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, dello smantellamento del traffico d’influenze, del bavaglio sulle ordinanze di custodia cautelare, della separazione delle carriere. Ma il prossimo passaggio sarà l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. «Ce lo chiedono gli italiani», giurerà la presidente del Consiglio.

Massimo Giannini