Per le imprese italiane si va verso un salasso da 50 miliardi di interessi passivi a tutto il 2023: se fosse così, anche la riforma fiscale del Governo, in quota Ires, potrebbe rivelarsi spuntata e non del tutto efficace a neutralizzare gli extra costi degli oneri finanziari
I dati Istat relativi al calo tendenziale dell’inflazione in Italia, in attesa di conoscere le analoghe variazioni nei livelli generali dei prezzi degli altri Paesi dell’Unione, non forniranno purtroppo alcun assist affinché la Banca centrale europea si convinca a intraprendere un cammino, se non di cauto abbassamento del costo del denaro, quanto meno di non aumento ulteriore dello stesso.
A confortare le tesi rigoriste di Christine Lagarde e del suo consiglio direttivo – del quale fa parte anche il moderato Fabio Panetta, designato dal Governo Meloni come prossimo Governatore della Banca d’Italia a partire dall’autunno di quest’anno -, è la circostanza che la componente inflattiva cosiddetta “core”, ossia la struttura di base della variazione dei prezzi al dettaglio determinata da fattori diversi da quelli energetici e alimentari, continua a calare troppo poco.
Non è del resto un mistero che la Banchiera Lagarde abbia da tempo messo nel mirino i profitti delle imprese, o meglio di taluni settori di esse, e quei segmenti di mercato del lavoro dove la carenza di figure professionali specializzate potrebbe determinare pressioni sul fronte degli andamenti salariali.
In tal modo però, è l’opinione dei ceti politici e delle organizzazioni imprenditoriali, si ottiene solo il rischio di vanificare le politiche fiscali nazionali, strette nei vincoli del patto di stabilità della cui revisione si sta discutendo a Bruxelles per impedire dall’anno prossimo il ritorno alla sua versione più austera, e di colpire le categorie più vulnerabili e marginali, ossia le famiglie a reddito fisso, i lavoratori poveri, le aziende a più basso livello di innovazione e operanti nei settori a minore valore aggiunto.
Per la comunità delle imprese italiane è stato quantificato un esborso, in termini di interessi passivi, che alla fine del 2023, se non verrà sovvertita l’attuale linea di indirizzo della BCE sui tassi di riferimento, porterà a una cifra record gravante sui conti economici e patrimoniali per un totale di 50 miliardi. Una gran parte dei quali si tramuterà, com’è inevitabile, in crediti incagliati o in sofferenza per gli istituti creditori, come evidenziato più volte dal Presidente dell’associazione bancaria italiana Antonio Patuelli.
Va inoltre evidenziato che il calo dell’inflazione tendenziale non si evolve automaticamente in una aumento, più o meno simmetrico, del potere d’acquisto dei salari e degli stipendi delle famiglie medie, soprattutto in un Paese come l’Italia dove in termini reali le componenti retributive sono ferme al palo dal 1993, ossia dagli accordi che gli allora governi di Giuliano Amato e di Carlo Azeglio Ciampi raggiunsero con le rappresentanze datoriali e sindacali per mandare definitivamente in soffitta la scala mobile e fissare un adeguamento al tasso di inflazione programmata al livello più basso possibile.
Entrambi impegnati a Bruxelles, rispettivamente per il Consiglio europeo e per l’assemblea del Ppe, il partito popolare continentale rappresentato a Roma da Forza Italia, la Premier Giorgia Meloni e il suo vice e titolare della Farnesina, Antonio Tajani, hanno mercato nettamente le distanze dalle scelte “pro cicliche” e recessive di Lagarde. Meloni ha ripreso addirittura la celebre battuta dello statista piemontese, e indimenticato primo Presidente eletto della Repubblica e governatore di Bankitalia, Luigi Einaudi, il quale ebbe a dire dell’inflazione che essa è una tassa odiosa sui più poveri, e come tale va contrastata.
Tuttavia, ha aggiunto la Premier, la ricetta della BCE è semplicistica, non tiene conto delle cause esterne alla base degli attuali livelli generali dei prezzi e si pone come una soluzione peggiore del problema che si vorrebbe risolvere.
Chiaramente, la scelta del Governo di centrodestra di indicare Fabio Panetta al vertice di Via Nazionale della Banca d’Italia – in successione a Ignazio Visco il cui mandato va a scadenza naturale – va nella direzione di mettere a disposizione del nostro Paese una voce autorevole e non di rado controcorrente rispetto al rigorismo ortodosso di Lagarde. In più occasioni infatti, nel corso dei mesi più recenti, il Banchiere Panetta, il cui nome peraltro era circolato anche nella lista dei papabili Ministri del costituendo Governo Meloni nello scorso ottobre, si distinse per il fatto di mettere in evidenza le differenze tra l’inflazione vigente negli Stati Uniti d’America e quella esistente nella UE.
Il tema tuttavia è di portata più generale, e investe la struttura e architettura costituzionale stessa della UE e dei suoi limiti di istituzione intergovernativa e non federalista: d’altra parte, la fissazione stessa dei parametri relativi a inflazione, deficit e debito, ossia il tridente dei numeri “magici” 2, 3 e 60 per cento, è espressione del portato di un’era in cui le crisi venivano immaginate al più come congiunturali e non strutturali o di lunga e incerta durata come quelle originate dai tracolli finanziari globali dal 2007 in poi.
La futura Commissione Europea, posto che i sondaggi confermino l’attuale tendenza verso la vittoria della coalizione fra Popolari e Conservatori – alla cui guida è stata confermata proprio la nostra Premier alcuni giorni fa – con i Socialisti che per la prima volta dopo decenni finirebbero all’opposizione dall’autunno del 2024, potrà mettere in atto delle iniziative politiche per indurre una forma di moral suasion nei confronti della BCE, la quale per Trattato UE rimane comunque indipendente; ma fino a quando non si metterà mano al diritto pattizio originato a Maastricht nel 1992, si potrà lavorare unicamente sul piano delle prassi eccezionali e – come lo ha definito il nostro Antonio Tajani – del legittimo e sacrosanto diritto di critica verso i custodi monetaristi dell’Euro di Francoforte.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




