Ero una donna tutta sola piantata in mezzo a problemi virili, senza l’aiuto di un incoraggiamento, sia pure d’un sorriso.
Era una brutta, bieca società maschilista e che fosse anche mafiosa me ne resi conto non per vie deduttive ma per quelle dell’osservazione diretta. Livia De Stefani è la prima donna a scrivere di mafia, non in modo distaccato o analitico, ma mettendo nero su bianco nomi e cognomi. Livia De Stefani nasce a Palermo nel 1913 in una famiglia di ricchi possidenti terrieri.
Giovanissima si trasferisce a Roma, ma ritorna periodicamente in Sicilia per amministrare le terre ereditate. Nei suoi romanzi la descrizione della società dell’epoca, dai forti tratti autoritari e feroci, si intreccia con il fenomeno mafioso che in quegli anni fagocita qualsiasi lembo di terra siciliana, a qualunque costo. Quel mondo criminale viene descritto nel quadro di una più ampia società fatta di soprusi, prevaricazioni e sottomissione dei più deboli, ovvero donne e contadini.
La scrittrice racconta la sua esperienza personale in quel contesto, gli incontri con i boss mafiosi e l’omertà che vi regna.
Una donna mal vista perché impegnata in faccende da uomini e che di certo non comprende la fatica del lavoro dei contadini, che le si mostrano sempre diffidenti e distanti, incapaci di comprenderne le velleità di cambiamento sociale e personale, come anche solo piantare alberi ornamentali che non producono alcun frutto.
Dopo il terremoto del Belice del 1968, Livia decide di vendere i suoi possedimenti, sebbene osteggiata dai parenti, ai quali risponde: “Ciò che conta è di averle possedute, le cose smarrite, conosciute e amate, perse, o sottratte, o andate in polvere, niente e nessuno ce le potrà togliere mai… mai strapparle dall’anima, dalla mente, dal sangue.
Nessun ladro, nessun prepotente… nessun terremoto”.
Dafne Malvasi



