Per “virtualizzazione” in informatica si intende una strategia di gestione delle risorse molto plastica. Abbiamo sperimentato come lo smart working, ereditato dalla gestione emergenziale, abbia contribuito a virtualizzare la prestazione del lavoratore: non più legata alla materiale presenza fisica sul posto di lavoro per essere espletata, ma dematerializzata e resa liberamente allocabile.
Questa plasticità, dapprima impiegata per il conseguimento di presunti obiettivi sanitari, garantisce oggi la possibilità di concentrare le attività sul fronte di intervento più conveniente per il datore di lavoro in ogni istante. Fossero pure più di una nello stesso momento e, spesso, a spese del lavoratore che si trova a gestire molte attività diverse tra loro in multitasking, comportandosi come fosse egli stesso un’entità di calcolo, con conseguente alienazione e rischio di burn out. Fenomeni simili si osservano in ambito sociale.
Riprendendo alcuni estratti dell’opera di Francesco Varanini dal titolo Splendori e miserie delle intelligenze artificiali, vedremo come ci siano fondati motivi di ritenere che constatazioni simili non siano casuali, e che rappresentino invece la conseguenza di un preciso orientamento, a lungo sospirato sin dai primi momenti della storia dell’informatica. Più precisamente, l’attuale livello di sviluppo tecnologico avrebbe finalmente permesso di tirar fuori dai cassetti dei teorici dell’ingegneria sociale le ataviche ambizioni per farne pane quotidiano. Il fatto che cambiamenti di tale portata siano arrivati di pari passo con il presentare al mondo i primi veri prodigi dell’intelligenza artificiale, avvalorerebbe questa ipotesi.
Comportamenti umani ed evoluzione tecnologica
Ma cosa collega il cambiamento dei comportamenti umani con l’evolversi della tecnologia informatica? Per quale motivo la seconda influisce così pesantemente sul primo? Ad esempio abbiamo osservato come la filosofia di contenimento delle unità di elaborazione, che dovrebbe riguardare un’area di intervento esclusivamente tecnica, si sia invece accompagnata al contenimento del campo di azione umano, con crescenti proibizioni e altrettanti effetti sui rapporti interpersonali.
Il Varanini propone una brillante osservazione che, a mio avviso, offre una chiave di lettura illuminante: il computer è divenuto lo specchio tramite il quale oggi dovremmo conoscere noi stessi.
Sorprendentemente questo concetto discende dai presupposti ideologici che hanno motivato l’evolversi di questa scienza sin dai suoi albori. Alan Turing (1912-1954), insigne matematico e pioniere dell’informatica, mosso da una forte sfiducia nei confronti dei suoi simili, invitava a preferire le macchine a se stessi. Sognava e sperava in un mondo dove le macchine avrebbero pensato al posto degli uomini, senza pregiudizi. Da studioso, però, egli si rendeva conto che non sarebbe stato possibile cogliere la complessità del mondo nella sua interezza mediante schemi di puro calcolo. Così, se era impossibile ricalcare l’idea del super matematico, di Laplace, si poteva ipotizzare l’esistenza di un mondo più semplice, dove rientrano esclusivamente i problemi risolvibili da un “computer”, mentre gli altri sono tolti dalla scena per definizione: “Inesistenti nel paradiso della computazione”. Nasce l’era della computabilità.
Tra etica e utilitarismo
Nell’idea del computer di Turing è presente un riferimento diretto all’agire umano. Il concetto alla base è che «queste macchine sono destinate a svolgere qualsiasi operazione che potrebbe essere eseguita da un computer umano. Si suppone che il computer umano segua regole fisse». Continua: «Il proporre un mondo assoggettato a regole va di pari passo con l’immaginare un essere umano assoggettato a regole». Il lettore più attento avrà già avvertito un brivido lungo la schiena che dovrebbe ricordare qualcosa di recente.
Un tale paradigma ha pesanti implicazioni. Sul piano politico osserviamo, infatti, come vari processi decisionali siano guidati non più da un’etica basata su categorie morali, ma su criteri utilitaristici. Vale a dire, sulla cosiddetta aritmetica morale. Uno slogan su tutti: «I benefici superano i rischi». Se un determinato trattamento sanitario imposto permette di trarre beneficio a un numero maggiore di persone rispetto a quante ci rimettono, allora è eticamente sostenibile e va accettato da tutti. Anche quando ha effetti intrinsecamente immorali, come far morire qualcuno, provocare aborti, emarginare gli indigenti. Il principio etico utilitarista viene perciò così efficacemente adottato e propagandato perché basato su una logica di computazione compatibile con la visione tecnocratica che si impone nell’agire quotidiano, la cui ideologia vede l’umano ridotto a macchina di calcolo biologica.
Come tutte le ideologie, anche questa, per quanto ammantata di scientificità, cela una grande ipocrisia ravvisabile nelle stesse sue premesse che abbiamo illustrato: pretendere di condizionare i comportamenti del vivere e dire cosa sia giusto e cosa sbagliato in un mondo che, in partenza, si è riconosciuto di non poter spiegare pienamente, tanto da sostituirlo con un universo idealistico semplificato a misura del computer. La chiave di lettura dell’uomo, rimossa la sua complessità, diviene infine la macchina. L’uomo si pone dunque a immagine e somiglianza del computer, non più di Dio. Il superomismo è morto per passare il testimone al supercomputer.
Non c’è da stupirsi che l’umanità si aspetti da questo nuovo idolo ciò che normalmente si sarebbe attesa da Dio. La salvezza dalla morte, dalle malattie, la prosperità materiale, la felicità e addirittura i miracoli. Sono queste le promesse del paradiso dell’intelligenza artificiale. Per esempio l’annuncio di finanziamento al progetto “Stargate”, come più grande investimento nel settore dell’intelligenza artificiale mai avvenuto, ha recentemente rimpinguato tali aspettative, auspicando la rapida soluzione di molti problemi che affliggono l’uomo. Ma sarà veramente così o, come ogni ideologia, diventerà un incubo?
a cura di Andrea Ingegneri


