MANOVRA: GIÀ FINITO IL TESORETTO DI DRAGHI, 2024 SENZA SALVAGENTE

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Svanita anche l’opzione federalista: lo stallo sull’autonomia regionale differenziata e il rinvio ulteriore del progetto di ripristino delle Province a elezione diretta, sono la conferma di come il decentramento aumenti la spesa globale aggregata anziché ridurla o razionalizzarla

Tra qualche giorno il Governo presenterà la nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, la prima effettivamente ascrivibile nella totalità all’esecutivo di Giorgia Meloni, chiamato a reperire fondi e coperture dall’interno dei bilanci ministeriali e senza più le risorse ereditate in corso d’opera dai predecessori.

Nello specifico, l’attuale corso politico di palazzo Chigi dovrà prendere atto dell’avvenuto esaurimento dell’effetto Draghi su PIL e occupazione e, allo stesso tempo, della necessità di portarne avanti le politiche più austere e meno popolari.

Un mix tale da generare un autentico corto circuito in un esercizio che sarà segnato dalla concomitanza con uno degli anni elettorali più ingolfati dal punto di vista dell’ingorgo delle scadenze a partite da quel Parlamento europeo il cui voto ha la stessa valenza e importanza di una consultazione politica generale: chiedere al Renzi del 2014 e al Salvini del 2019 per ottenerne conferma. Proprio il risultato che emergerà dal rinnovo della massima Assemblea legislativa di Strasburgo fornirà a Giorgia Meloni la bussola su come proseguire la navigazione al timone del Paese: se con un vigoroso rimpasto fra i Ministri ovvero cercando, con l’assenso decisivo del Capo dello Stato Sergio Mattarella, di portare gli Italiani al voto politico anticipato per Camera e Senato nel caso le preferenze elettorali premiassero i Fratelli d’Italia in una misura tale da incrinare ancora di più i rapporti con l’alleato leghista destinato peraltro a rimanere fuori dai giochi per la formazione della futura commissione UE a causa del posizionamento di Salvini nella destra franco tedesca radicale.

Appare quindi evidente che, nelle secche della riforma di un patto di stabilità che nella migliore delle ipotesi concederà ridottissimi spazi di manovra in deficit per l’Italia (con il passaggio dal monitoraggio annuale a quello quadriennale del disavanzo), per rispettare il parametro del rapporto tra fabbisogno e PIL, e non gravare quindi sul debito, palazzo Chigi, e con esso il dicastero del MEF a guida leghista moderata con Giancarlo Giorgetti, studieranno per il 2024 una legge di bilancio magari roboante nei principi ideologici da offrire ai propri elettori e simpatizzanti ma inevitabilmente molto cauta nella traduzione di essi in entrate e spese.

Del resto, quanto avvenuto sul versante della gestione comunitaria dei migranti la dice lunga sul livello di solidarietà esistente fra gli Stati della UE, e queste divergenze di vedute si ribaltano sul modello economico finanziario, con il netto rifiuto del debito comune e il prevalente orientamento a che ogni singolo Governo nazionale sia responsabile in toto del proprio passivo, senza alcuna distinzione fra spese buone e spese cattive in deficit.

Con buona pace proprio di Giorgetti quando afferma di temere di più il giudizio dei mercati che non quello di Bruxelles, pur sapendo che una bocciatura da parte della Commissione europea, o anche soltanto una rimandatura, si riflette sulla misura della fiducia che i sottoscrittori dei bond e delle obbligazioni statali sono disposti ad accordarci dopo la venuta meno dell’ombrello della BCE come acquirente di ultima istanza dei BTP e come garante di liquidità a tasso zero.

Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI