Sarebbe troppo facile parlare della “rivincita del normalizzatore”, ma dicendo così si commetterebbero due errori.
Per prima cosa Stefano Pioli non è uomo che cerca né rivincite né vendette, troppo alto il suo profilo per scadere nella ripicca. E poi, soprattutto, quella definizione, “normalizzatore”, alla fine gli ha portato persino bene e ha dimostrato che lui normalizzatore proprio non lo è. È un vincente, e adesso anche l’albo d’oro lo certifica. Perché se Maignan è stato strepitoso, Leao devastante e Tonali decisivo, Pioli è stato tutto questo assieme, e il voto nella pagella di fine anno non può che essere un 10. Pieno, totale, assoluto.
Lavoro di testa e di campo, l’impegno di Pioli è stato trasversale e non ha tralasciato alcun dettaglio, come solo i grandi allenatori sanno fare. Ha dato fiducia a chi l’aveva persa, ha fatto crescere un gruppo di giovani talentuosi e diventati fortissimi, ha trasmesso calma nella tempesta e dato grinta nei momenti di flessione, ha tenuto la barra dritta in una stagione lunga e faticosa, guida e punto di riferimento apprezzato da società e giocatori, un’unione perfetta con le idee di Maldini e Massara che sapevano di potergli affidare tanti diamanti grezzi su cui lavorare.
E lo ha fatto sul campo, creando un sistema di gioco base (il 4-2-3-1) di cui però non è mai stato prigioniero, con una serie di trovate tattiche che hanno spiazzato squadre e allenatori avversari. Si è presentato a Napoli con un 4-1-4-1 mai visto prima, sfruttando Tonali come centrale basso e avanzando Bennacer e Kessié. Lo stesso ivoriano è stato spesso utilizzato sulla linea dei trequartisti al posto di Diaz (la prima volta a Empoli) per non rinunciare a nessuno dei suoi tre centrocampisti, non dare riferimenti davanti e avere una linea coperta in fase difensiva.



