Nuovo patto di stabilità e le contraddizioni della politica economica europea

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La commissione UE ha presentato la riforma del patto di stabilità. Restano i limiti del 3% (rapporto deficit/Pil) e 60% (rapporto debito/Pil), ma si riconosce flessibilità alle modalità di rientro dei conti pubblici verso questi parametri. Qualora poi non venissero rispettate le nuove formule di bilancio, le sanzioni stavolta scatterebbero in modo automatico

La Germania voleva molta più attenzione ai conti, l’Italia maggiore flessibilità. Alla fine, ne è uscita questa via di mezzo. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova.

Sabella, cosa dire della proposta avanzata dalla Commissione europea in merito alle nuove regole di bilancio?

La riforma del patto di stabilità è un passaggio obbligato. Nel senso che l’Europa – in quanto Unione di 27 stati membri – si dà delle regole comuni. Queste regole erano state precedentemente sospese, per via dell’emergenza pandemica, e ora vengono reintrodotte in una nuova forma che prevede percorsi più flessibili per ridurre i debiti più alti, come quello italiano. I tempi potrebbero essere lunghi: 4 anni dalla comunicazione della Commissione, più altri 3 in caso di riforme sulla sostenibilità dei conti o investimenti in difesa, tecnologia e transizione ecologica. Da questo punto di vista, vedo un intento di mediazione importante per superare quelle rigidità con cui, più o meno 10 anni fa, è stata gestita la crisi del debito e i suoi casi più eclatanti, Grecia e Spagna. Vedo però un’Europa che non ha le idee chiare su ciò che sta avvenendo nel mondo e che, come al solito, si muove molto lentamente e in modo molto contradditorio. In questa fase, stiamo rischiando molto.

A cosa si riferisce?

Comprendendo, come ho detto pocanzi, il bisogno dell’UE di ridarsi nuove regole per la convivenza dei 27 stati membri, mi sfugge invece il motivo per cui, dalla discussione economica a Bruxelles, resti ancora fuori il tema degli investimenti pubblici. La Cina vive di investimenti pubblici e gli USA, in questa fase, hanno messo sul piatto 400 miliardi di dollari a sostegno delle imprese (Inflaction Reduction Act) per contrastare l’inflazione e per quella che noi chiamiamo Transizione ecologica ed energetica, cioè a sostegno delle imprese per la loro riconversione. Come al solito, noi teorizziamo e parliamo tanto di cose che gli altri fanno. USA e Cina viaggiano verso l’energia rinnovabile e verso l’auto elettrica più velocemente di noi che pensiamo invece di essere gli unici a volere la Transizione. 

La programmazione europea è decisamente orientata alla Transizione. Perché secondo lei ci sono queste lentezze a procedere?

Perché l’Europa ancora manca di unità politica, che significa unità di obiettivi e di interessi. In Italia, per esempio, ancora non abbiamo capito che, di fondo, si tratta di una transizione capitalistica: in particolare, i grandi investimenti stanno abbandonando l’oil and gas. Da una parte, quindi, abbiamo una situazione sempre più precaria degli equilibri politici nel mondo – vedi guerra in Ucraina – perché quei Paesi che dipendono dalle esportazioni di commodities sono in subbuglio; dall’altra, la trasformazione dell’industria va seguita e accompagnata.

L’Europa lo fa con la rigidità delle regole, USA e Cina lo fanno investendo nell’economia. È chiaro che così si resta indietro e c’è il serio rischio, a questo punto, che succeda ciò che qualche analista aveva previsto a novembre – quando dagli USA era rimbalzata in Europa la novità dell’Inflaction Reduction Act (Ira) – ovvero che le industrie europee potessero pensare di delocalizzare/investire negli USA, come peraltro qualche caso già si sta verificando: il più grande gruppo europeo di rame, Aurubis, sta attualmente costruendo un nuovo impianto nello stato della Georgia;

l’azienda chimica Evonik, sta costruendo un nuovo impianto per la produzione dei cosiddetti lipidi farmaceutici in Texas; Audi, Bmw e Siemens Energy stanno esplorando la possibilità di investire negli USA. Insomma, in Europa bisogna rispondere in modo deciso a questo scenario. Altrimenti, ancora una volta, perderemo terreno.