Diverse recenti ricognizioni e spedizioni di recupero delle Associazioni ambientaliste raccontano quanto sia diffuso e pericoloso l’inquinamento da plastica nei litorali italiani. Diventa sempre più evidente che il solo riciclo non può bastare
Se qualcuno tempo fa diceva “estate” e chiedeva di dire la prima cosa che veniva in mente per associazione, la maggior parte delle persone diceva subilto: “mare”. Oggi tuttavia se qualcuno invece dicesse “plastica” e chiedesse un’associazione immediata, in molti potrebbero rispondere: “mare”. Piuttosto triste.
Nel corso della navigazione nel Tirreno di tre settimane, condotta negli ultimi giorni del giugno scorso da GreenPeace per documentare la biodiversità dei nostri mari e denunciare i crescenti impatti della crisi climatica e dell’inquinamento da plastica, la spedizione ha fatto tappa a San Felice Circeo, cittadina del litorale laziale, dove in collaborazione con un team di subacquei, è stato effettuato un recupero di vari attrezzi da pesca e rifiuti nei fondali a poche miglia dalla costa. Raccontano che in mezza giornata hanno recuperato un furgone di rifiuti tra cui plastica e grandi quantità di attrezzi da pesca come le nasse, rifiuti che inquinano il mare e sono una minaccia per la vita di tartarughe, delfini e per la fragile biodiversità marina.
Questo accade a poche miglia dalla costa. Ma sembra che nemmeno i canyon sottomarini siano al sicuro. Anche in quei luoghi profondi è stata trovata plastica. Ed è ancora più grave perché si tratta di aree dove grandi cetacei si nutrono e inconsapevolmente ingeriscono plastica, mettendo seriamente a rischio la loro vita. Le indagini condotte dall’Università di Padova sui capodogli spiaggiati tra il 2008 e 2019 lungo le nostre coste hanno documentato nell’84% dei soggetti esaminati la presenza di frammenti prevalentemente di natura plastica nelle cavità gastriche.
Sono tantissime comunque le specie animali del Mediterraneo che ingeriscono plastica, con notevoli impatti sulla loro salute che in alcuni casi può portarle fino alla morte. La plastica infatti è una pericolosa minaccia per gli animali marini che, ingerendola accidentalmente o scambiandola per cibo, ne subiscono conseguenze devastanti, perché altera il loro bioma intestinale, diminuendo la loro capacità di nutrirsi, obbligandoli a consumare molta più energia per procacciarsi il cibo, indebolendoli.
Se la plastica anche di grandi dimensioni (ad esempio teli per usi agricoli, borse e sacchetti di plastica e frammenti di corde, lenze, pezzi di reti e fili) non è causa diretta della loro morte, sicuramente genera un grave impatto sulla salute di questi animali. Come succede quando gli animali restano impigliati nella plastica e possono annegare, soffocare o subire traumi fisici come amputazioni o infezioni li rendono meno capaci di difendersi dai predatori e spesso impediscono loro di nutrirsi correttamente, portandoli alla malnutrizione. Senza contare che la plastica si è mostrata in grado di “risalire” la catena alimentare a partire anche dagli organismi più piccoli come il plancton fino a quelli più grandi e all’uomo che se ne ciba.
In un’altra delle tappe della spedizione sulle coste italiane la spedizione di GreenPeace si è fermata a Montalto di Castro (Viterbo), in una spiaggia apparentemente incontaminata. Qui, sotto una spessa coltre di materiali naturali, principalmente legno, sono stati trovati diversi rifiuti in plastica risalenti ad alcuni decenni fa, come, ad esempio, vasetti di yogurt, flaconi di creme solari e saponi, oltre a decine di bottiglie di bevande varie. Tutto questo fa capire come ormai questa emergenza ambientale sia ormai fuori controllo. Soltanto in Italia infatti vengono vendute ogni anno circa 11 miliardi di bottiglie in plastica per acque minerali e bevande.
Secondo i dati del 2019, più del 60% di queste, circa 7 miliardi, non vengono riciclate e rischiano di essere disperse nell’ambiente e nei mari, contribuendo in modo massiccio all’inquinamento del pianeta.
Come dimostrano numerose evidenze scientifiche, il riciclo da solo non basterà ad arginare questo problema. Lo hanno ben chiaro diverse nazioni come la Norvegia, la Svizzera, la Nuova Zelanda, l’Ecuador e tanti altri Stati africani che dai tavoli del recente incontro di Parigi, dove si è discusso proprio del Trattato globale per la Protezione degli Oceani, hanno chiesto di porre un limite alla produzione di plastica. A loro si affiancano numerose altre nazioni europee.
Insieme alla presenza di plastica, a causa del cambiamento climatico, si vedono sempre più spesso aree “bruciate dall’aumento delle elevate temperature marine che avanzano come un incendio senza fiamme a cancellare interi habitat: gorgonie sbiancate, fondali privi di vita, un vero deserto sotto il mare che non accenna ad arrestarsi. Le specie più colpite sono le gorgonie, la madrepora Cladocora caespitosa e le alghe corallinacee incrostanti che sempre più spesso mostrano segni di sbiancamento e necrosi attribuibili al riscaldamento delle acque. Se scompaiono loro, scompare la vita di tante creature marine che dipendono dalla loro presenza.
Proprio per difendere i nostri mari, è stata lanciata in questi giorni una nuova petizione: un appello al Ministero dell’Ambiente e al Ministero per le Politiche del mare affinché si ratifichi il Trattato Globale per la Protezione degli Oceani 30×30 siglato sotto l’egida delle Nazioni Unite per proteggere gli oceani e si avvii la creazione di una rete di aree marine protette nel Mediterraneo. Dei mari di casa nostra, meno dell’1% risulta effettivamente protetto. Creare un’area marina protetta, significa non solo tutelare la flora e la fauna ma anche irrobustire l’ecosistema marino dal quale, tutti, dipendiamo perché, va ribadito con forza, è grazie al Mar Mediterraneo se la vita è così come la conosciamo.
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