Ora che gli Usa hanno dichiarato guerra all’Ue, Giorgia Meloni che fa?

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Un’offensiva fatta di dazi punitivi e, ora, anche di messa al bando di personaggi, primo fra tutti l’ex Commissario Breton, accusati di essere paladini delle norme per la protezione degli utenti digitali. Leggi – il Digital Markets Act e il Digital Service Act – votate l’anno scorso ad ampia maggioranza e sostenute da tutti i Paesi dell’Unione.

Nell’era di Donald Trump e dei giganti tecnologici che lo sostengono, siamo passati bruscamente dai conflitti tra la Commissione Ue e singoli giganti della Silicon Valley che hanno violato le sue norme antitrust e quelle di tutela della privacy degli utenti, a una sfida lanciata dal governo americano che ha per oggetto natura e i limiti del free speech e della sovranità digitale.

Con l’Europa che, dopo aver rinunciato a luglio a introdurre una digital tax invisa agli americani per disinnescare i dazi punitivi di Trump, oggi, col governo Usa che arriva a trattare funzionari e politici europei come fossero oligarchi russi sottoposti a sanzioni, si vede costretta ad affermare con un suo portavoce che »la sovranità normativa della Ue non è negoziabile».

Davvero Washington, dopo aver accusato le democrazie europee si essere illiberali, vuole costringere l’Europa a rimangiarsi le sue leggi? E come si è arrivati a tanto?

Dallo scontro Monti-Microsoft alle leggi Ue contestate da Trump

Per oltre un quarto di secolo le tensioni tra Bruxelles e i giganti di big tech sono state un fatto endemico nel quale il governo americano non ha fatto interventi di grande peso anche perché fin dall’inizio, nel 1998, l’indagine Ue seguì una analoga denuncia contro Microsoft dello stesso ministero della Giustizia Usa.

Dopo Microsoft toccò, nel secondo decennio del Ventunesimo secolo, al nuovo gigante di internet, Google, condannato per tre volte a multe miliardarie per comportamenti anti concorrenziali: aver forzato le compagnie telefoniche a preinstallare nei loro smartphone il sistema operativo Android se volevano avere accesso ai servizi digitali del suo Play Store; aver favorito i suoi prodotti e la sua piattaforma nei servizi di shopping; aver bloccato la pubblicità dei concorrenti dando la preferenza a quella veicolata dalla sua rete, AdSense.

Col GDPR, il regolamento per la protezione dei dati votato nel 2016 ed entrato in vigore due anni dopo, l’Europa fa un salto di qualità: non più solo concorrenza e mercato, ma anche privacy, protezione dei dati dei cittadini da tenere al riparo da usi abusivi di big data. Non cause con singole aziende ma un nuovo sistema che costringe le grandi imprese digitali, quasi tutte americane, a ripensare il loro modo di raccogliere dati «a strascico» appropriandosi di tutti quelli dei loro utenti e delle loro interazioni.

Massimo Gaggi