Ci è voluta la politica monetaria austera della BCE a fare emergere una nuova categoria sociale di persone a rischio abitativo: i mutuatari, ossia coloro che nell’era dei tassi a zero e della liquidità avevano stipulato un mutuo per la proprietà della prima casa, magari a tasso variabile, salvo poi dover subire, da oramai un anno a questa parte, il rincaro continuo delle rate mensili di restituzione del prestito
Una situazione sulla quale si è registrato un meritorio, sebbene parziale e non risolutivo, intervento legislativo che ha introdotto la possibilità di transitare dal tasso variabile a quello fisso a determinate condizioni di ISEE e di importo residuo del mutuo in essere.
Purtroppo, però, il disagio seguito al mix contingente fra post pandemia e inflazione da guerra, ha reso gli effetti sociali non più governabili neppure con gli strumenti emergenziali già noti.
Cosicché, in un Paese come l’Italia che dal punto di vista della proprietà immobiliare diffusa detiene un record in Europa, a differenza degli Stati nordici dove la maggioranza delle famiglie vive in affitto per via della più spiccata mobilità sociale, vi è un milione e mezzo di nuclei non più in grado di adempiere al puntuale pagamento del canone di locazione piuttosto che delle mensilità del mutuo prima casa.
Se il Governo Meloni ha prorogato alcune agevolazioni, in termini di garanzia pubblica, per le giovani coppie mutuatarie, con la legge di stabilità e di bilancio per il 2023 ha prosciugato gli stanziamenti relativi al fondo per il sostegno alla locazione residenziale, al contributo per l’affitto integrativo del reddito di cittadinanza e agli aiuti con cui affrontare i casi di morosità incolpevole.
Il leader della Lega e Vicepremier Matteo Salvini, interpellato un mese fa in Parlamento sulla lacuna finanziaria attinente ai predetti tre capitoli – facenti parte delle dotazioni del dicastero delle infrastrutture (ex lavori pubblici) da lui diretto – ha derubricato i fondi in questione alla stregua di bonus o di interventi emergenziali, e come tali definiti “spot”, promettendo un nuovo Piano casa pubblico privato di cui però non sono ancora noti tempi, procedure e modalità.
A questo punto, lo scenario seguito alla decisione della vigente legge di stabilità dello Stato è piuttosto chiaro: quella che con enfasi giornalistica viene definita emergenza abitativa è in realtà una precisa scelta politica in atto da oramai trent’anni. Da quando cioè i governi Amato e Ciampi sospesero la legge Nicolazzi sull’equo canone per sostituirla con il meccanismo dei patti in deroga, preludio alla successiva decisione del Governo D’Alema di abolire definitivamente il regime dei prezzi amministrati sul mercato degli affitti residenziali per sostituirlo con sistemi concertativi e su base territoriale quali gli affitti concordati a cui abbinare incentivi fiscali per proprietari e inquilini e un fondo centrale per il sostegno alla locazione da ripartire direttamente fra le Regioni e indirettamente fra i Comuni.
Dunque si è trattato di una decisione politica consapevole: a livello statale si è spostata la causa del libero mercato degli affitti, ignorando (o facendo finta di ignorare) il fenomeno delle concentrazioni immobiliari che non di rado ha interesse a tenere sfitti o inabitati interi stock di appartamenti; mentre si è demandato al livello regionale e comunale il compito di provvedere alle problematiche di chi cerca o perde la casa.
L’ultimo vero grande Piano per l’inclusione abitativa degli Italiani risale all’immediato secondo dopoguerra ed è passato alla storia come piano Fanfani, dal nome del più volte Premier e Ministro e padre costituente del grande centro democristiano, che si finanziava tramite i fondi gescal (gestione case lavoratori) consistenti in trattenute sui salari lordi dei dipendenti.
Da allora, con il graduale e progressivo esaurimento di detti fondi, si è dovuto attendere il 1978, con la legge Nicolazzi, per assistere a un nuovo incisivo intervento statale di contrasto alle crescenti tensioni sociali dell’epoca e alla massiccia industrializzazione delle principali aree urbane. In pratica, sul privato proprietario dell’immobile veniva scaricata parte dell’onere di garantire un’abitazione stabile e accessibile alla parte più vulnerabile, ossia l’inquilino. Circostanza altamente meritoria, ma che in parte favorì il fenomeno delle locazioni sommerse.
Dal 1992 in avanti, non vi sono più state strategie di sorta sul capitolo in esame: solamente alcuni ricorrenti decreti per il blocco degli sfratti esecutivi, adottati in maniera indistinta da tutte le fazioni politiche alternatesi alla guida del Governo del Paese, e alcuni stanziamenti per integrare i redditi di quei nuclei familiari per i quali la spesa per l’affitto avrebbe eroso una quota eccessiva del loro potere d’acquisto.
È immaginabile che, di fronte alla spirale dei rincari che minaccia di non essere breve, il Governo Meloni Salvini recupererà risorse per reintegrare il capitolo del fondo affitti e per le morosità incolpevoli, ma il tema di fondo è qualitativo e non quantitativo o solo monetario: la casa fa parte o no delle politiche pubbliche dell’Italia? La risposta è NO, da trent’anni a questa parte, tanto che si essa si parla come di un sotto settore all’interno del ministero prima dei lavori pubblici e oggi delle infrastrutture.
Perfino il Pnrr da questo punto di vista, pur dedicando poco meno di tre miliardi di euro (su 191 totali) al paragrafo intitolato “qualità dell’abitare”, finirà con il rappresentare l’ennesima occasione mancata nella direzione di assegnare alla Casa un rango istituzionale consono alla gravità del nuovo e mutato scenario macroeconomico.
A oggi appena lo 0,1 per cento del prodotto interno lordo del nostro Paese è dedicato alle politiche abitative e residenziali, a fronte di una media europea che in alcuni casi tocca picchi fino al 3,5 per cento.
In contraltare a ciò, la crisi demografica dovuta alla crescente denatalità ha condotto a un aumento del numero di unità residenziali sfitte o non abitate in via continuativa: secondo l’ISTAT esse sommerebbero addirittura a dieci milioni. Se si deduce da questo totale la quota connessa alle seconde case stagionali, connesse a esigenze cioè di tipo turistico, gli immobili sui quali potrebbero essere attivate politiche volte a mitigare il disagio di chi ha perso, rischia di perdere o cerca casa – per sopraggiunti problemi economici involontari – sarebbero comunque sette milioni.
Confedilizia, la storica associazione dei piccoli proprietari e degli amministratori condominiali, fin dai tempi del compianto Presidente Corrado Sforza Fogliani ha messo a punto un pacchetto di proposte volte a creare convergenze con il mondo degli inquilini, a partire dallo strumento dei contratti cosiddetti transitori: in pratica, i Comuni tratterebbero con la proprietà un certo stock di unità da acquisire temporaneamente in affitto, salvo poi assegnare le stesse alle famiglie ritenute bisognose o meritorie di tutela sul mercato delle locazioni.
Un punto di compromesso per tutelare il reddito dei locatori senza comprimere quello dei locatari.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




