Nella notte tra tutti i santi e tutti i defunti, Pierpaolo Pasolini andò a cercar la brutta morte, e la trovò, 50 anni fa. Un tempo si diceva che molti fascisti a Salò, e prima di loro nell’altra guerra gli arditi al fronte, e poi i falangisti, andassero “a cercar la bella morte”; una morte eroica, in battaglia, degno e precoce coronamento di una vita. A cercar la bella morte diventò pure il titolo di un romanzo autobiografico di Carlo Mazzantini sulla sua esperienza nella Repubblica sociale.
Pasolini, invece, corteggiò la morte e la cercò nella desolazione di una periferia romana, di una vita trasgressiva e oscena, tra ragazzi di vita diventati per l’occasione ragazzi di morte. Quella morte violenta e coerente alla sua vita, coronò la ricerca di gloria e punizione che desiderava, quel volgersi della sua disperata vitalità in morte scandalosa e martirio.
Ho scritto spesso di Pasolini ma non ho mai voluto soffermarmi sul tasto dolente e controverso della sua morte, all’Idroscalo di Ostia, tra il primo e il due novembre di cinquant’anni fa. Ho sempre rifiutato il complottismo sulla sua morte, la tesi dell’esecuzione squadrista del personaggio scomodo da eliminare; quella retorica allestita al cinema, al teatro, nei media, raccontava che l’assassinio di Pasolini fu premeditato e commissionato. Manovalanza fascista, ispirata dai poteri forti e dalla vecchia Dc chiamata a processo in un memorabile articolo dello scrittore. Poi venne la pubblicazione postuma di Petrolio e la letteratura dietrologica e vittimista trovò un ulteriore appiglio: Pasolini fu eliminato perché stava scoprendo gli altarini.
Non ho mai creduto a questi racconti, mi sono ricordato di quel che dicevano i suoi amici prima del misfatto: prima o poi Pasolini, con quelle frequentazioni in cui si cacciava, quelle situazioni che creava, le sue pretese erotiche e i suoi violenti rituali di piacere e dolore, di corpi sacrificati nella voluttà di una scabrosa liturgia sessuale, avrebbe fatto una brutta fine.
di Marcello Veneziani


