Ho conosciuto Pier Paolo Pasolini per un’intervista, come era normale, in fondo allora facevo ancora il giornalista
Pier Paolo abitava all’Eur, quartiere borghese per eccellenza, in una casa borghese, zeppa di centrini, di comodini, di piccoli vasi di fiori. Eravamo su una bella terrazza.
Mi colpì il suo volto, scavato. Un volto da Cristo, non ovviamente il Cristo olografico, ma il Cristo crocefisso di Matthias Grünewald che si può vedere a Colmar, nel Museo di Unterlinden (lo trovate subito sulla sinistra e fa una notevole impressione). Pier Paolo, nel suo parlare pacato, non faceva alcuna impressione. Non c’era nulla di sulfureo in lui. Non se la dava, per dirla in termini spicci.
L’atteggiamento di Pasolini cambiò radicalmente quando entrò la madre. Fu tutto un “pissi pissi, bao bao”, infantile. E lì capivi l’omosessualità di Pasolini. Si sa che a volte madri troppo opprimenti nei confronti dei figli maschi ‘partoriscono’ omosessuali o playboy, il che è la stessa cosa (vedi Sgarbi).
Poiché si era creata una certa intesa, mi invitò a pranzo. La madre si era ritirata in cucina. Parlammo dei temi che gli erano più cari, la “dittatura del consumo” e la battaglia contro il Potere da lui individuato, secondo me un po’ troppo sbrigativamente, nella Democrazia cristiana.
Sul consumo mi disse: “Io credo, io credo profondamente che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato ‘la società dei consumi’. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa.
E invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa bonaria e grassoccia società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un fascismo bello e buono… Il che significa, in definitiva, che questa ‘società dei consumi’ è una civiltà dittatoriale.
Insomma se la parola ‘fascismo’ significa la prepotenza del potere, la ‘società dei consumi’ ha bene realizzato il fascismo… Secondo me, la vera intolleranza è quella della società dei consumi, della permissività fatta cadere dall’alto, voluta dall’alto, che è la vera, la peggiore, la più subdola, fredda e spietata forma di intolleranza.
Perché è intolleranza mascherata da tolleranza. Perché non è vera. Perché è revocabile ogni qualvolta il potere ne senta il bisogno. Perché è il vero fascismo da cui viene poi l’antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime” (Antifascismo come genere di consumo, intervista rilasciatami per L’Europeo nel dicembre 1974).
Nel pomeriggio arrivò Ninetto Davoli, uno dei suoi giovani amanti. E qui si manifestò un altro Pasolini, più aggressivo. La sera mi invitò a cena in un ristorante del Pigneto, allora uno dei quartieri più malfamati di Roma (adesso è diventato trendy). C’erano “ragazzi di vita”, marchette, delinquenza spicciola. Lo conoscevano tutti, però uno non va in un posto del genere a bordo di un’Alfa Romeo se non ha il piacere, il gusto, la voglia del rischio. Del resto, nel 1961, Pasolini aveva tentato una rapina a un benzinaio del Circeo.
Pasolini era morbosamente attratto non dal proletariato, ma piuttosto dal sottoproletariato.
Quando nel Sessantotto i sessantottini gettavano, per scherno, le monete ai poliziotti, Pier Paolo prese la parte di questi ultimi sostenendo che i primi erano solo dei marci borghesi (e in effetti lo erano), mentre le vere vittime erano i poliziotti.
Massimo Fini


