PENSIONI, LA DESTRA RIPESCA PRODI: TFR NELLA PREVIDENZA PRIVATA?

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La minore crescita economica dell’Italia, relativa al secondo semestre dell’anno, obbliga a immaginare che vi sarà un calo di risorse correnti. Così torna in auge la proposta che nel 2006 venne formulata dall’allora ministro dell’Ulivo, il torinese Cesare Damiano, per decretare il conferimento di una quota del trattamento di fine rapporto nei fondi pensionistici integrativi

Forza Italia vorrebbe mettere a segno un ulteriore rialzo delle pensioni minime, sebbene l’obiettivo di legislatura dei fatidici mille euro mensili per fine legislatura resti di là da venire; la Lega, per voce del Sottosegretario al lavoro Claudio Durigon, cerca in tutti i modi di disinnescare anche per il 2025 il ritorno sic et simpliciter alla legge Fornero versione Monti. Tutti, nel frattempo, si interrogano su come rifinanziare per altri dodici mesi, a decorrere dal prossimo primo gennaio, la rivalutazione delle pensioni in essere, confidando nel calo ulteriore dell’inflazione come certificata dall’ISTAT.

Insomma, sul terreno della previdenza sociale il motto “partire divisi per colpire uniti” sembra non trovare applicazione, poiché le divergenze sono totali sulle proposte iniziali, e un punto di sintesi finale non pare all’orizzonte del dopo ferragosto.

Per il momento, il solo capitolo dove, più o meno, si registra un minimo comune denominatore di concordia di base è sul rafforzamento di una proposta che, diciotto anni fa, fu espressa dal Governo dell’Unione di Romano Prodi e dall’allora Ministro torinese del Welfare onorevole Cesare Damiano. A riportarla in auge è stato nientemeno che un alfiere della destra sindacale radicale, l’attuale sottosegretario al ministero del Lavoro Claudio Durigon, attuale parlamentare della Lega di rigida osservanza salviniana e celebre per le proprie crociate contro il reddito di cittadinanza o assegno di inclusione che dir si voglia.

Nel 2006, va ricordato, l’esecutivo del professore di Bologna varò una mini riforma del TFR con l’obiettivo di introdurre un meccanismo di silenzio assenso volto a incentivare, o indurre, i lavoratori dipendenti a decidere se mantenere il proprio salario differito nel bilancio aziendale (se piccola o media impresa) o in quello dell’INPS (se grande azienda) oppure devolverne una parte alla previdenza integrativa, in pratica ai fondi assicurativi privati di investimento sul libero mercato dei capitali.

I livelli di adesione allora furono alquanto bassi. Deve essere specificato che, sul piano dell’ordinamento previdenziale, nel periodo in questione era vigente la legge Dini, che aveva avviato l’introduzione, in Italia, del passaggio del metodo di calcolo degli assegni dal sistema retributivo al modello contributivo, da raggiungere sulla base di finestre, scalini o “scalini” che acceleravano o deceleravano a seconda degli andamenti macroeconomici dell’azienda Italia e della proiezione di medio periodo del PIL.

Il resto è storia più o meno nota: il passaggio al contributivo venne completato tra il 2011 e il 2012 dal Governo tecnico di Monti e Fornero, sebbene negli anni successivi siano state introdotte delle deroghe, attraverso il ricorso alle quote, alle opzioni e alle finestre anticipate. Esattamente le terminologie che stanno creando fibrillazioni a palazzo Chigi ben prima della ripresa ufficiale dei lavori parlamentari e governativi, e benché la crisi politica rischi di essere aperta non sui conti dell’INPS bensì sulla riforma della legge per la concessione della cittadinanza italiana.

L’onorevole Durigon, in ciò trovando l’assenso della Ministra di fratelli d’Italia Marina Calderone, ha lanciato l’idea di assegnare un rateo, corrispondente al 25 per cento dell’ammontare maturato, del TFR alla previdenza integrativa, al fine di irrobustire il cosiddetto terzo pilastro del sistema pensionistico (i primi due sono l’INPS e le polizze vita individuali) e di prevenire il fenomeno delle “pensioni di povertà” con cui le generazioni oggi quarantenni e trentenni dovranno obtorto collo confrontarsi duramente.

La proposta Durigon prevede un periodo informativo di 6 mesi entro il quale il lavoratore dipendente dovrà esercitare il proprio silenzio assenso, ovvero esprimere diniego palese e consentire al TFR di permanere integralmente nel bilancio aziendale, realtà assai diffusa in un Paese come l’Italia dove 9 imprese su dieci sono micro e piccole, neppure di media grandezza.

Le altre proposte riguardano il consolidamento di quota 41, con l’obiettivo di fare andare in pensione coloro che hanno maturato tale numero di annualità contributive presso l’INPS a prescindere dall’età anagrafica, però con un ricalcolo contributivo retroattivo che rappresenterebbe il “prezzo” da pagare allo sblocco di un provvedimento caro soprattutto alla Lega interessata al bacino elettivo dei lavoratori precoci del Nord. In tale ipotesi, però, il taglio subito dall’assegno si attesterebbe fra il 15 e il 30 per cento.

Infine, il tema delle “minime”: forza Italia chiede la conferma degli aumenti introdotti con la legge Finanziaria oramai in scadenza, e un ritocco ulteriore all’insù a 600 euro mensili per determinati gruppi sociali alle prese con i rincari degli ultimi tempi. Questo però rischierebbe, ove adottato, di colpire i ceti medi che, con assegni medi lordi fra i 1500 e i 2000 euro al mese, hanno potuto beneficiare della agognata rivalutazione, potendo così aiutare i figli e i nipoti alle prese con il lavoro povero o che non c’è.

Dir politico Alessandro Zorgniotti