PENSIONI O GIUSTIZIA? DA DOVE VERRANNO I RISCHI AUTUNNALI MAGGIORI PER IL GOVERNO

0
29

In questi giorni che cominciano a portare l’italiano medio nell’immaginario balneare dei bei tempi andati, i temi relativi alla giustizia – e ai problemi che da essa derivano a carico di Ministri,  Sottosegretari o figli di seconde cariche dello Stato – sembrano essere assolutamente dominanti nei confronti di qualsiasi altro tema su cui si sta concentrando la reale attività di governo

La stessa questione economica pare non tenere più banco da quando è scoppiata la “vicenda Santanchè”, a propria volta surclassata dal caso La Russa jr. Eppure è sulla delega fiscale e su quella previdenziale che si materializzano i rischi autunnali più elevati per palazzo Chigi e per il primo Governo a trazione post missina della storia repubblicana del Paese.

Giorgia Meloni, che all’epoca aveva diciotto anni, ricorderà senz’altro benissimo che il primo esecutivo a guida Silvio Berlusconi, nell’inverno del 1994, non cadde sul famigerato decreto Biondi (dal nome del compianto allora ministro liberale della Giustizia), bensì piuttosto sulla prima versione rigorista della legge Dini di revisione profonda del sistema previdenziale e di accelerazione della fine del metodo retributivo con parallelo innalzamento dell’età pensionabile pure per i candidati percettori di pensioni minime.

Il seguito è acquisito agli atti storici: Berlusconi, sfiduciato dalla Lega nord di fede bossiana, fu costretto alle dimissioni, e a subentrargli a palazzo Chigi fu lo stesso Dini che portò a definitiva approvazione la riforma pensionistica sulla base di un testo di compromesso fra destra e sinistra e di un cronoprogramma più morbido nel passaggio dal retributivo – che di fatto rimase in piedi fino al 2011 – al contributivo che surclassò definitivamente il primo con la legge Monti Fornero diventando il solo metodo di calcolo vigente per i neoassunti e per la carriera lavorativa residua dei pensionandi.

Non è casuale che proprio in questi giorni – quasi nel totale silenzio dei mass media alle prese con i guai dei tre alti esponenti di fratelli d’Italia, ossia Santanchè, Delmastro e La Russa – si sia sfiorato l’apice delle tensioni al tavolo negoziale insediato da Giorgia Meloni con l’obiettivo di prorogare alcune misure di agevolazione all’ingresso nell’età della pensione per una serie di categorie sociali e lavorative, in maniera da evitare per queste il rischio, dal prossimo primo gennaio, di incorrere nel ritorno alla versione più rigorista della legge che porta il nome della famosa economista torinese e ministra del governo dei Professori.

Stiamo parlando di quota 103, opzione donna e Ape (anticipazione pensionistica): tre soluzioni che nel tempo hanno finito con il rappresentare non il superamento della riforma Fornero, bensì un insieme di deroghe e di eccezioni alla stessa, nella vigenza pertanto del suo schema di fondo, al pari di quanto venne peraltro decretato all’epoca dallo stesso Monti con i provvedimenti a favore degli esodati, ossia quei lavoratori che, dopo il 2012, sarebbero stati estromessi dal sistema occupazionale senza avere i requisiti per la nuova e più elevata età pensionabile.

Della vicenda si sta occupando in modo specifico, per conto della Premier e della ministra delegata Marina Calderone, il sottosegretario al lavoro e alla previdenza di area leghista Claudio Durigon, sebbene l’orientamento di palazzo Chigi sia a cercare di trovare le risorse necessarie a prorogare per un altro esercizio di bilancio ancora, ossia fino a tutto il 2024, le tre deroghe prima ricordate, prestando una speciale attenzione alle donne, a prescindere dai carichi familiari, ai lavoratori precoci e con disabilità e a quelli appartenenti ai settori cosiddetti usuranti.

Il problema si risolleverebbe però nel corso del 2024 guardando agli anni dal 2025 in avanti, poiché si tratta di capire se la crescita economica generale non andrà incontro a nuovi shock, se il nuovo patto di stabilità della UE introdurrà il concetto di convergenza dei parametri contabili da perseguire non più di anno in anno ma su base quadriennale e infine se la delega fiscale produrrà i risultati sperati in termini di incentivo all’economia e di recupero di imponibile e di gettito. Al di là delle ricognizioni periodiche sul PIL, positive rispetto a Germania e Francia (ma inferiori a quelle della Grecia che sta attraversando un piccolo boom nel proprio reddito nazionale), a crescere molto di più è l’insoluto erariale, testimoniato da cartelle esattoriali non riscosse il cui valore nominale affidato alla ex Equitalia sfiora oramai i 1700 miliardi di euro, corrispondenti a un valore contabile residuo di poco inferiore a 1200 miliardi di euro: il che significa unicamente il fallimento di un modello di riscossione di tipo inquisitorio e sanzionatorio avvitato su se stesso, che ha finito con il parificare l’economia irregolare a quella illegale – dal punto di vista della entità abnorme delle sanzioni – e che per questo si è rivelato inidoneo a recuperare risorse agevolando la regolarizzazione di cittadini, professionisti e imprenditori.

Risorse senza le quali il ritorno alla Fornero versione 2011 sarà inevitabile fra 12 mesi o poco più: con la prospettiva di 5,7 milioni di futuri pensionati, gli attuali under 35, destinati a ricevere assegni Inps poveri e discontinui a meno che non sia istituita la pensione di garanzia o di cittadinanza.

Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI