Aveva capito che la scuola non faceva più per me: con la licenza media avevo chiuso, e serviva una mano in casa, un’altra busta paga, anche piccola.
Aveva anche capito che il pallone, per me, non era un gioco… era un destino. Così, addio collegi, addio preti, addio fughe. Mi trovò un lavoro, avevo appena quattordici anni. Da quel giorno toccava a me incastrare la vita tra un tornio e un campo di terra, tra il sudore di fabbrica e l’erba di provincia. Giocavo nel Laveno Mombello, a tre chilometri da casa.
Segnavo tanto, sempre, come se ogni gol fosse un modo per respirare. Sessantasei in due anni. Categoria modesta, certo, ma io ero appena all’inizio del sogno. Alla Slimpa, fabbrica di ascensori, lavoravo al tornio: bottoniere, viti, lamiere. Ne ho costruiti centinaia, e per anni ho odiato quegli ascensori… Perché ogni volta che ci entravo, mi ricordavano il rumore della fatica. Il rumore dei sogni che ancora non potevo permettermi.” Gigi Riva


