Non scrivo queste righe per raccontare quanto ho fatto, ma perché sento il peso di ciò che non riesco più a fare
Qualche giorno fa ho ricevuto la telefonata di una donna spezzata dalla violenza. Una donna che ha avuto il coraggio di chiedere aiuto, ma che si ritrova abbandonata nel momento in cui avrebbe più bisogno di sostegno psicologico.
Come psicologa esperta in vittimologia e Direttrice per i Diritti delle Donne della International Police Organization, ho visto da vicino i meccanismi di accoglienza nei centri antiviolenza. Ho dato la mia disponibilità anche oltre i miei limiti personali, raggiungendo case rifugio distanti, seguendo donne per mesi, dedicando parte della mia vita a chi non aveva altra voce. Ma oggi devo ammettere, con amarezza e responsabilità: non basta.
Non basta la buona volontà di qualche professionista. Non basta qualche ora donata quando il sistema è assente.
La realtà è che, anche quando esistono sportelli e centri antiviolenza, il supporto psicologico resta precario. Anche quando un professionista si rende disponibile, non può seguire tutte. Perché chi lavora ha pazienti, ha famiglia, ha limiti umani. E io stessa, oggi, mi trovo a non poter dare più di qualche seduta a chi invece avrebbe bisogno di un percorso vero, stabile, continuativo.
Il problema è strutturale. È del sistema. E la domanda è semplice: chi si prende cura di queste donne quando lo Stato è assente?
Non è possibile che le donne che sopravvivono alla violenza siano lasciate sospese nel vuoto. Non è possibile che la psicoterapia diventi un privilegio per poche fortunate. È urgente una risposta pubblica, concreta, che non lasci nessuna donna sola dopo la richiesta d’aiuto.
D.ssa Klarida Rrapaj
Psychologist Criminologist Victimologist


