Star, influencer, tenori. Tutti giubilanti, festanti, esultanti. Eppure a poche miglia da Buckingham Palace, superato il meridiano di Greenwich, lungo il Tamigi, un uomo marcisce in carcere.
E’ un giornalista, imprigionato nel e dal civile occidente, per aver svelato al mondo intero le porcherie dei potenti. Alcune fatte dal governo britannico, tra l’altro. Porcherie costate centinaia di migliaia di morti tra i quali bambini, neonati, donne incinta. Porcherie che hanno causato milioni di profughi. Porcherie che hanno impoverito mezzo mondo.
Il giornalista in questione si chiama Julian Assange. Assange è rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh. 11,7 miglia (meno di 20 km) lo separano dal balcone dal quale si è affacciata Elisabetta II di Windsor. Da un lato 70 anni di regno. Dall’altro 11 anni di prigionia. Da un lato migliaia di telecamere. Dall’altro solo un ipocrita e colpevole silenzio. Lo stesso calato sull’assassinio di Shereen Abu Saleh, una giornalista uccisa per aver osato raccontare le tragedie che il popolo palestinese subisce da decenni. Sono bastati 3 mesi di guerra per diventare (giustamente) tutti filo-ucraini. Non bastano decenni di apartheid per solidarizzare con i palestinesi.
Quando qualcuno osa ricordare le ignobili guerre di invasione mascherate da missioni di pace in Iraq o Afghanistan (non per giustificare l’invasione dell’Ucraina ma per far capire che senza un’assunzione vera di responsabilità non ci sarà mai pace nel mondo) orde di sepolcri imbiancati ripetono la stessa litania: “noi occidentali abbiamo imparato dai nostri errori”. Ma quando si persevera nell’errore (vedi Assange, vedi Palestina, vedi colpi di Stato in Africa) c’è sempre e solo silenzio.
Quando Assange morirà in carcere in TV sentiremo dire da pavidi giornalisti: “abbiamo sbagliato, ma l’occidente sa imparare dai propri sbagli”. Ora dovrebbero tirare fuori voce e coraggio. Ma lo fanno solo per gridare “God Save the Queen”, mentre un uomo come Assange può pure crepare dietro le sbarre.


