Racchette spezzate e menti d’acciaio: il confine tra genio e follia in campo

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Nel tennis, la linea più sottile non è quella che delimita il campo, ma quella che separa il controllo dalla perdita di sé. È la frontiera invisibile della mente, dove convivono concentrazione e frustrazione, orgoglio e paura. Da lì nascono le vittorie più incredibili, ma anche gli scatti d’ira che fanno il giro del mondo: racchette sbriciolate sul terreno di gioco, urla verso il cielo, occhi che si abbassano in cerca di una calma che sembra lontanissima.

Il tennis è lo sport della solitudine. In campo, non ci sono compagni su cui contare, nessun allenatore che possa intervenire, nessuno a condividere il peso dell’errore. Si è soli, esposti, nudi davanti alle proprie emozioni. Per questo, la tenuta mentale diventa la differenza tra chi riesce a rimanere integro e chi implode, tra chi sa trasformare la rabbia in carburante e chi finisce per essere divorato da essa.

La mente come secondo avversario

Ogni partita è una battaglia doppia: una contro l’avversario e una contro se stessi.

L’aspetto mentale non è un contorno, ma una struttura portante. Puoi avere il miglior diritto del circuito, ma se non sai gestire la frustrazione dopo un errore gratuito, quel diritto diventa inutile. Gli psicologi sportivi lo spiegano chiaramente: il cervello, sotto stress, tende a semplificare le risposte, a ridurre la lucidità, a ripetere meccanismi istintivi. In un match teso, questo significa commettere di nuovo lo stesso errore, reagire di pancia o cercare una via di sfogo fisica.

Quella via di sfogo, spesso, è una racchetta che vola per aria o si infrange contro il cemento.
La rabbia in campo: un linguaggio universale

La rabbia nel tennis non ha lingua né nazionalità. È la stessa che attraversava John McEnroe negli anni Ottanta, con i suoi “You cannot be serious!” urlati in faccia agli arbitri, e quella che fa tremare oggi le tribune quando Andrey Rublev scaglia la racchetta al suolo dopo un doppio fallo. È la rabbia di chi non accetta l’imperfezione, di chi pretende da sé la perfezione assoluta.

La rabbia, nel tennis, è anche una forma di comunicazione. È un messaggio lanciato al pubblico, all’avversario, al proprio team invisibile. Alcuni tennisti, come Marat Safin, sembravano quasi trarre forza da quell’energia distruttiva. Altri, come Novak Djokovic, hanno imparato a contenerla, a incanalarla in un silenzio feroce che diventa arma.

Ogni racchetta distrutta racconta una storia diversa, ma tutte parlano dello stesso conflitto: l’impossibilità di essere perfetti quando la mente pretende la perfezione.
Il prezzo della perdita di controllo

Quando la rabbia prende il sopravvento, la partita spesso è già compromessa. L’esplosione emotiva libera qualcosa, sì, ma toglie lucidità. Dopo un gesto di stizza, quasi sempre arriva una sequenza di errori. Il corpo è ancora agitato, il respiro si accorcia, la mente resta bloccata sull’errore passato invece che sul punto successivo.

Nel tennis, il tempo per recuperare è pochissimo. In pochi secondi bisogna passare dalla frustrazione all’azione. Chi non riesce a farlo perde terreno, ritmo e fiducia.

Eppure, la rabbia non è sempre nemica. Alcuni campioni l’hanno usata come un propellente. Rafael Nadal, ad esempio, trasforma l’irritazione in intensità. Si muove più veloce, colpisce più forte, canalizza l’emozione nel gesto tecnico. Al contrario, altri giocatori, come Nick Kyrgios, oscillano tra genialità e caos, e quella stessa rabbia che li accende può spegnerli di colpo.

La differenza, ancora una volta, sta nella gestione. Non nell’emozione in sé, ma nel modo in cui la si attraversa.