Caro direttore, di «mamma Rai» non ce n’è più una sola. In questi giorni è crollato un muro, seppur meno iconico di quello di Berlino, considerato altrettanto inscalfibile: quello della «sinistra» a viale Mazzini. La grande stampa, che per anni ha campato di collaborazioni e comparsate televisive, ora scrive compatta di una presa d’assalto da parte dell’attuale esecutivo alle poltrone della Rai
. Ma se l’onestà intellettuale, o ancora meglio la coscienza, non vanno più di moda, almeno avrebbero potuto fare un’analisi storica. In una lettera a Ugo La Malfa nel lontano 1968, fu Alberto Ronchey il primo a utilizzare la parola «lottizzazione» in Rai; in precedenza, nondimeno, era «uso e consuetudine» del Governo pro tempore mettere il naso nella televisione di Stato.
Con la Riforma del 1975, c’è stato il via libera da parte dei partiti a formalizzare la spartizione della Rai in un «pluralismo» che negli anni successivi ha seguito il format «divide et impera»: Raiuno al centro, Raidue ai socialisti e Raitre al Pci. Poi, passata la furia giustizialista di Tangentopoli, quella che era la ripartizione iniziale si è sbilanciata sempre di più a sinistra.
Si arriva quindi alla Riforma del 2015, targata Matteo Renzi, attraverso la quale si attribuisce a Palazzo Chigi e al Mef un’influenza decisiva nella Tv di Stato grazie alla nomina dell’amministratore delegato. E così si giunge ai giorni nostri, in cui si grida al sopruso e al bavaglio senza ricordare che proprio alcuni dei dirigenti nominati nelle ultime ore – Corsini, Ciannamea, Mellone – sono stati «confinati» e discriminati per anni nonostante le loro indubbie qualità. E la tanto discussa dipartita di Fabio Fazio, comunque la si voglia leggere, non è altro che una dimissione unilaterale del tutto legittima in un mercato libero.


