Reddito alimentare: l’importanza di un dibattito critico su misure che non servono granché a garantire il diritto al cibo [Maria Vasile e Arianna De Conno*]
Nella legge di Bilancio 2023 è stata inserita la sperimentazione del Reddito alimentare, misura volta al contrasto dello spreco e della povertà. A differenza di quanto potrebbe suggerire il nome, questa non si baserà però sull’erogazione di sussidi ma sulla distribuzione di pacchi alimentari, realizzati con prodotti invenduti, alla popolazione in condizione di vulnerabilità socioeconomica. La sperimentazione sarà portata avanti per due anni a partire dalle città metropolitane.
Questa proposta è stata inserita a seguito di un emendamento del Partito democratico e rappresenta il risultato di un percorso iniziato due anni prima, sulla spinta principalmente di Leonardo Cecchi, attualmente responsabile delle Nuove povertà del Pd umbro. Tra i passi del percorso ricordiamo il lancio di una petizione sulla piattaforma Change.org nel 2021 (alla quale hanno aderito quasi 70mila firmatari) e la creazione di un comitato ufficiale per il Reddito alimentare nel marzo 2022. Sia al livello regionale sia comunale non sono poi mancate discussioni politiche al riguardo e tentativi di implementazione della misura precedenti alla sua introduzione nella legge di Bilancio. Ne sono un esempio le proposte in Umbria, e nei Comuni di Firenze e Pistoia.
La proposta del Reddito alimentare ha ricevuto un sostegno importante per la dimensione che sta raggiungendo il problema della povertà in Italia. Secondo gli ultimi dati Istat, infatti, nel 2021 erano in condizione di povertà assoluta circa 1,9 milioni di famiglie (7,5% del totale, erano il 7,7% nel 2020) e circa 5,6 milioni di individui (9,4% come l’anno precedente). La povertà assoluta ha confermato sostanzialmente i massimi storici toccati nel 2020, anno d’inizio della pandemia da Covid-19. Per la povertà relativa l’incidenza sale all’11,1% (dal 10,1% del 2020) e le famiglie sotto la soglia sono arrivate a circa 2,9 milioni (erano 2,6 milioni nel 2020).
La povertà alimentare rappresenta un riflesso parziale di questa situazione. Secondo i fautori di questa proposta, la povertà alimentare diventa ancora più problematica e paradossale se messa a confronto con la questione dello spreco nella filiera alimentare. Secondo la recente indagine Waste Watcher 2023 sul caso italiano, nel 2022 sono state gettate oltre quattro milioni di tonnellate di cibo: per il 26% in agricoltura, per il 28% nell’industria e “solo” per l’8% nella distribuzione.
Al momento sono ancora poco definite le modalità operative della sperimentazione del Reddito alimentare. Secondo quanto stabilito dalla legge di Bilancio (art. 1, comma 434), il pacco alimentare potrà essere prenotato dagli aventi diritto mediante una app e poi ritirato presso un centro di distribuzione, mentre i beneficiari appartenenti a “categorie fragili” potranno riceverlo a domicilio. Ulteriori aspetti attuativi, quali le forme di selezione dei beneficiari e di coinvolgimento degli enti del Terzo settore, saranno ulteriormente definiti tramite decreto del ministro del Lavoro e delle politiche sociali entro inizio marzo 2023.
La duplice dichiarazione di intenti di questa misura – contrasto allo spreco alimentare da un lato, lotta alla povertà dall’altro – va collocata nell’ambito di un modello di intervento tanto diffuso quanto dibattuto al livello internazionale. Infatti la ridistribuzione di prodotti invenduti alla popolazione in condizione di vulnerabilità socioeconomica viene portata avanti in diversi Paesi, soprattutto da enti del Terzo settore per superare quello che è stato definito il “paradosso della scarsità nell’abbondanza” (Campiglio e Rovati, 2009), ovvero uno scenario in cui, nel medesimo sistema, coesistono spreco e deprivazione. Ne sono un esempio le food bank del mondo anglosassone che, tramite diversi modelli organizzativi e risorse, sono diventate un anello chiave tra l’industria agroalimentare e l’assistenza.
A titolo esemplificativo citiamo la St. Mary’s food bank, un’organizzazione non profit attiva in Arizona, negli Stati Uniti, nata nel 1967 e che viene spesso riconosciuta come una delle food bank più antiche. In Europa, il numero di queste realtà è cresciuto in modo significativo dopo la crisi del 2008: nel Regno Unito, sono un caso emblematico le 1.400 realtà che aderiscono al Trussel trust, a cui si aggiungono le 1.172 “banche del cibo” indipendenti del Paese.
In Italia il Banco alimentare (che fa parte dell’European food banks federation) è attivo dal 1986: secondo il loro ultimo bilancio sociale, nel 2022 ha ridistribuito circa 110mila tonnellate di alimenti e mobilitato oltre 1.800 volontari. L’attività del Banco è fortemente sostenuta anche dal recupero di derrate alimentari: nel 2020, le eccedenze hanno rappresentato il 68% dei prodotti distribuiti dal Banco alimentare della Lombardia (Banco alimentare Lombardia, 2021).
Oltre a questo tipo di realtà, che potremmo definire para-istituzionale, non mancano gli interventi di distribuzione dal basso come esemplificato, in particolare durante l’emergenza Covid-19, dall’azione di brigate di solidarietà, associazioni spontanee di quartiere e centri sociali (Musella 2019).
L’attenzione al rapporto tra spreco alimentare e contrasto alla povertà non rappresenta una novità assoluta nemmeno nel contesto legislativo italiano. Si pensi all’adozione nel 2016 della legge 166, nota come “legge Gadda”, mirata a promuovere azioni volte a favorire le donazioni di prodotti alimentari e farmaceutici idonei al consumo, che altrimenti sarebbero destinati a diventare rifiuto. Questa norma, la cui applicazione rimane ancora complicata, ha rappresentato un tassello ulteriore del percorso iniziato già nel 2003 con la cosiddetta “Legge del buon samaritano” (155/2003), fortemente voluta anche dal Banco alimentare.
A una prima lettura, interventi che si concentrano sullo spreco e sulla povertà sembrerebbero una soluzione interessante per contrastare i due problemi. La ridistribuzione di invenduti viene infatti spesso presentata come una soluzione win-win, che interviene tanto sul fronte sociale quanto su quello ambientale. Potrebbe inoltre apparire, in un contesto di emergenza sociale, come una soluzione che è “sempre meglio di niente”. Ma è davvero così? E che cosa succede quando si tenta di far diventare questo tipo di intervento più strutturale?



