REGIONALI, LE DESTRE TENGONO: ORA SERVE UN’IDENTITÀ PIÙ NETTA

0
6
fassina
Nessuna drammatizzazione. Ma non sono utili analisi consolatorie dei risultati della coalizione progressista nel voto regionale
Le elezioni, ancora una volta senza popolo, vinte in Toscana sono state il 14° appuntamento regionale (senza contare Val d’Aosta e Trento e Bolzano) svoltosi dopo l’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. È vero che i “ribaltoni” sono stati 2 (Sardegna e Umbria) a 1 (Lazio) a favore dell’alleanza Pd-M5S-AvS e centristi.
Vero anche che le Regionali sono diventate il terreno più sfavorevole per tale schieramento: qui, in media, oltre 2/3 dell’elettorato ‘politico’ del M5S rimane in larga parte a casa, oppure, soprattutto nel Mezzogiorno, indipendentemente dal colore del presidente uscente, esprime un ‘voto di riconoscenza e prenotazione’ alla filiera incardinata nelle istituzioni dotate anche della più modesta risorsa economica.
Tuttavia, il segno è chiaro: dopo tre anni di governo delle destre, il blocco FdI-Lega-FI-Moderati non si espande, ma tiene bene in un generale rattrappimento dell’affluenza.
Il centrosinistra, invece, conferma i suoi limiti di insediamento sociale. Non riesce a recuperare l’emorragia del M5S. Non intercetta la domanda di politica pur viva, come reso evidente dalle oceaniche mobilitazioni innescate dal martirio del popolo palestinese.
Non siamo di fronte soltanto a difficoltà nostrane e congiunturali. Certo, per il M5S si impone un nodo specifico: può continuare a essere un soggetto di primaria rilevanza nazionale senza adeguate radici e classi dirigenti territoriali?
Ma è da affrontare la questione di fondo, presente ovunque nel malmesso Occidente, comune a tutti i protagonisti del versante progressista: da tempo siamo entrati in un’altra stagione della Storia.
Dominano le domande di protezione sociale e identitaria, nel vuoto di legami comunitari e solitudini social. È assillante la ricerca di senso. È un’emergenza finanche antropologica originata dalla tecnica e dalla violenza insita nel mercato globale ed europeo.
Ma l’egemonia liberista no limit e no border nell’area progressista allunga la distanza dalle fasce sociali più in difficoltà, le più lontane dalle urne.
Sono sterili le invocazioni iper-politiciste sull’allargamento del “campo”. Da un lato, è constatazione aritmetica, non politica, la necessità del M5S.
Dall’altro, va preso atto dell’utilità condizionata dell’apporto elettorale di culture e personalità “moderate”: dipende dalla loro capacità di riconoscere l’insostenibilità sociale, ambientale, spirituale della regolazione neoliberista e delle agende tecnocratiche da essa derivate.
Dobbiamo guardare in faccia la realtà: per riconquistare l’“amato popolo” (Antonio Cantaro), va coltivata una cultura politica radicalmente umanista e rideclinato l’asse nazionale-sovranazionale dell’impianto di policy. È un lavoro di lunga lena. Ma decisivo.
È urgente smontare la sempre più spinta deriva europea di warfare. Prospettare schemi solidali alternativi all’ingresso nell’Ue di Ucraina, Georgia, Moldavia, Balcani.
Estendere ancora implica rinunciare alla soggettività politica dell’Unione e aggravare il dumping salariale e fiscale, quindi moltiplicare le disuguaglianze e l’impoverimento del lavoro. Un’area progressista imprigionata nella lettura della Russia come “minaccia esistenziale” non è credibile nella proposta di rigenerazione del welfare.
Non può esprimere alcuna significativa alternatività. Non riconquista né i settori sociali perduti, né le generazioni più giovani in piazza.
La meta qui, dovrebbe essere un ordine internazionale multilaterale, espressione fedele del pianeta multipolare, dove l’Europa è ponte, in primis verso Est. Rimanere ancillari a Washington e al tentativo di resistere al tramonto del secolo americano consegna i progressisti all’irrilevanza.