Roberto Saviano, cosa ci faceva ai funerali di Papa Francesco?
«Ero stato ai funerali di Wojtyla, da giovane cronista. Seguivo il percorso della vendita dei panini, organizzata dal clan».
I panini dei funerali di Wojtyla venduti dalla camorra?
«Così andò».
E stavolta?
«Il sagrato pareva un posto scomodo per le autorità. Il legno di Francesco voleva essere toccato non da persone di potere. È stato sepolto dagli ultimi, per sua volontà».
Ha conosciuto il Papa?
«Ho avuto con lui vicinanze e prossimità sull’immigrazione. Con Michela Murgia andammo nella Cappella Sistina. Un cardinale ci disse: resistere! Si riferiva alla difesa dei migranti in mare. Papa Francesco ha messo il suo corpo su un tema che non ha mai portato consenso in questi anni».
Crede in Dio?
«Sono un ateo convinto, attratto dalla spiritualità. Il Vangelo è un meraviglioso capolavoro letterario, la Torah continua fonte di interrogazione. Sono un ateo che bazzica le strade dello spirito. Nei momenti più difficili della mia vita, come questo, non ho trovato soccorso in un dio, ma nelle pagine dei testi sacri, in cui riconosco l’uomo meglio che in qualsiasi altro».
Perché è un momento difficile?
«Ho la sensazione di aver sbagliato tutto».
Quando l’ha provata?
«L’altro giorno, ai funerali di mia zia Silvana, che per me è stata la seconda madre. Non erano nemmeno funerali: non c’era nessuno. I miei vivevano a Caserta. Fin dal 2006 se ne sono dovuti andare nel Nord Italia, anche per mia responsabilità. Sradicati. Non sono riusciti ad aprirsi e si sono isolati. La mia scelta l’hanno pagata altri. Io ne ho fatto attività, impegno. La mia famiglia ha solo pagato. Ha dovuto fronteggiare le insinuazioni: loro figlio, loro nipote aveva diffamato la sua terra…».
Si sente in colpa?
«Sì. A un certo punto della mia vita pensavo di aver fatto qualcosa di talmente determinante, che mi sentivo diverso da tutti gli altri scrittori. Avevo un’ambizione ancora più delirante: non solo affermare il libro; accendere la luce sulle cose, mostrare la verità. Dare superpoteri ai lettori. Far vedere quello che la cronaca non ti mostra o ti mostra a pezzi. Avevo un’ossessione: con i libri, cambiare la realtà. Ci sono riuscito? Ricorda Simon Weil? “Grande sventura sarebbe morire impotenti non solo a vincere ma anche a comprendere”. Ecco, io credo che sono riuscito a far comprendere».
In che modo?
«Quelli che mi accusano di aver sputtanato Napoli, dovrebbero riflettere: se l’ho sputtanata, perché da tutto il mondo ci vogliono venire? Io su Napoli ho acceso una luce. E con la luce il cambiamento è possibile. È esplosa la vita. Ma questo a me impone un prezzo altissimo».
Quale?
«Io esisto per quello che rappresento, non per quello che sono. La cosa peggiore che può succedere a uno scrittore è diventare un simbolo. Diventi di sasso. Sono oppresso da un senso di solitudine, che nasce da una cosa molto grave: l’impossibilità di sbagliare. Se sei uno scrittore, devi sbagliare, devi contraddirti, devi vivere. La letteratura deve contrariare il lettore. Il lettore deve trovarmi in posizioni inaspettate».
Invece?
«Invece per anni ho lottato con una logica militare. Non volevo lasciare neppure uno spiraglio per far attaccare la mia battaglia. E questo mi è costato molto caro. In passato attaccare uno scrittore significava per il potere rischiare di sollevare un’immensa attenzione su di lui; oggi non più così. Oggi nella Turchia di Erdogan uno scrittore, Ahmet Altan, prende l’ergastolo, ma questo non accende alcun interesse sui suoi romanzi. Se le tue parole, quando perseguitate, non generano interesse, protezione, nemmeno curiosità, allora possono farti qualsiasi cosa».
Lei non è all’ergastolo.
«Vero. Ma vivo la mia situazione come se lo fossi. Vivo recluso, senza vederne la fine. Ricorda Vieni via con me, la trasmissione con Fazio?».
Un successo enorme.
«Dovuto anche al tentativo di spegnerci. Oggi i tentativi di spegnere gli scrittori, ad esempio portandoli in tribunale, non hanno lo stesso effetto».
Perché?
«La velocità di fruizione non permette di cogliere la complessità che c’è dentro un libro. Anche per questo ho la sensazione di aver sprecato la mia vita. Vorrei interrompere il lavoro. Ma non ci riesco. L’altro giorno ho fatto sui social una storia sul gol del Bologna all’Inter, puntando il dito contro i dirigenti della curva più infiltrata dalla ndrangheta d’Italia. Ho avuto migliaia di attacchi».
Era prevedibile, no?
«Assolutamente si, l’avevo fatto apposta. Conservo l’istinto a mettermi nei casini. Volevo far incazzare i tifosi, dopo che l’inchiesta “Doppia curva” ha dimostrato come la ‘ndrangheta abbia federato le due curve di San Siro. Poi però sono dovuto andare a Milano per lavoro. I carabinieri della protezione erano nervosissimi. E mi sono detto: com’è possibile arrivare alla mia età con tutti questi guai, e non pensare che ti prendi un sacco di insulti, di orrore, di isolamento?».
Resta il fatto che viviamo in un Paese in cui lei è libero di esprimere la sua opinione.
«Certo. Gli intellettuali turchi, iraniani, russi che prendono posizione contro il potere non hanno una vita dignitosa e riparata. Se restano nei loro Paesi rinunciano alla loro vita. Ma questa cosa — rinunciare alla vita — è successa anche a me. Non credevo di pagare così tanto. Certo, pensavo di pagare un prezzo, ma non così a lungo. Ma pensavo di durare poco».
Aldo Cazzullo



