La mossa, anche elettorale, fa senz’altro comodo a presidenti di Regione e forze politiche che cercano la riconferma in autunno, dal meloniano Francesco Acquaroli nelle Marche al centrosinistra che, pur cambiando cavallo, governa da dieci anni in Campania e in Puglia.
Dal febbraio 2025, da quando cioè è stata realizzata da Agenas la Piattaforma nazionale che dovrebbe consentire a tutti di sapere quanto ci vuole per una tac o per una visita cardiologica in Lombardia o in Basilicata, è in corso un serrato confronto tra i tecnici del ministero e dell’Agenzia e quelli delle Regioni. Nei primi dati trasmessi, con trucchi e trucchetti legali e non, quasi tutte le Regioni sfioravano il 100 per cento di prestazioni nei tempi previsti (3 giorni se la prescrizione è U, urgente; 10 se è B, breve; 30 o 60 se è D, differibile; 120 se è P, programmata). Dati troppo belli, appunto, per essere veri.
Il campionario è noto: liste chiuse e “di galleggiamento” così l’attesa non c’è o non si vede, “presa in carico” ritardata e via andare. Roba indegna di un Paese civile all’ombra del Titolo V della Costituzione, mentre chi può paga i privati (ricavi +5,7 per cento nel 2023, profitti + 15,5 per cento tra il 2019 e il 2023, dati Mediobanca), chi non può rinuncia alle cure (4,1 milioni di persone nel 2022, 4,5 milioni nel 2023 e 5,8 milioni nel 2024 secondo l’Istat) e qualcuno magari muore. Con buona pace del presidente Sergio Mattarella che ha dedicato alle liste d’attesa un accorato passaggio del suo discorso del Capodanno 2025.
L’ultima ad arrendersi, a fine luglio, è stata la Regione Marche, chiamata al voto il 28 e il 29 settembre: lì il partito di Giorgia Meloni si gioca le Regionali. Insistevano su un risultato oltre il 95 per cento di tempi di attesa rispettati, grazie a un “giochetto” – l’hanno chiamato “errore” – sulla cosiddetta “prestazione di garanzia” che consentiva di escludere un gran numero di visite ed esami dal totale su cui si calcolano gli sforamenti. Alla fine li hanno convinti a correggere ed erano al 60/70 per cento, vuol dire 3/4 prestazioni fuori termine. Di quanto? Non si sa. E non si saprà prima delle elezioni, mentre la campagna di Acquaroli (FdI) punta proprio sui risultati in tema di sanità.
È successo un po’ a tutti di dover correggere, comprese l’Emilia-Romagna “rossa” e “virtuosa” e la Lombardia delle eccellenze (dove però non si vota), che fanno il pieno di mobilità sanitaria “attiva” e cioè di viaggi della speranza dalle Regioni povere. In Campania (al voto a novembre) hanno oltre l’80 per cento di prescrizioni programmate (P) a 120 giorni, contro una media nazionale del 30/40 per cento. Così è più difficile sforare, infatti il presidente dem Vincenzo De Luca si vanta dei dati oltre il 90 per cento delle prescrizioni urgenti (72 ore) e brevi (10 giorni): basta farne il meno possibile.
Per quanto abbiamo capito incrociando varie fonti, reggono dati decenti soltanto per il Veneto e la Toscana, attese al voto ma poco contendibili (la prima resterà al centrodestra, la seconda al centrosinistra): sono rispettivamente sopra il 90 e l’80 per cento di prestazioni nei termini. Supera il 90 per cento anche la Calabria di Roberto Occhiuto, in testa però alle classifiche della mobilità passiva: se il trucco c’è non l’hanno trovato.
Da due anni, i carabinieri del Nas fanno verifiche sulle liste d’attesa. I dati del 2023 il ministro Orazio Schillaci li ha ignorati, quelli del 2024 li ha sbattuti in faccia alle Regioni che si oppongono ai poteri sostitutivi del ministero, in una lettera del marzo scorso: “Irregolarità gravi” nel “27% delle strutture sanitarie ispezionate”, ma il report completo non ha consentito di pubblicarlo. Stato e Regioni litigano, però si coprono a vicenda. Oggi come in passato, con altri governi.
Non è messo così bene neanche il Lazio guidato da Francesco Rocca di FdI, dove comunque stanno facendo un buon lavoro, anche costringendo i privati convenzionati (compresi quelli forti: il Gemelli, la galassia Angelucci, ecc.) a condividere le agende con il Cup, l’unico realmente regionale. “Quando sono arrivato, il rispetto medio dei tempi d’attesa era al 67% oggi siamo al 96%”, proclamava Rocca l’8 maggio scorso. Schillaci ha indicato il Lazio come esempio. Ma pure qui c’è il trucco. Legale. I ritardi si calcolano solo sulle prestazioni per le quali pazienti accettano la prima disponibilità offerta dal Cup: nel Lazio la rifiutano in circa il 90 per cento dei casi, contro una media nazionale attorno al 40 per cento. È pure logico, Cup regionale vuol dire che un signore di Latina può sentirsi proporre Viterbo, a 200 chilometri. E Roma è grande e complicata.
Ora, non sembra che i rifiuti nascano tutti dalla distanza, c’è pure chi vuole scegliere l’ospedale o l’ambulatorio ma per quello c’è l’intramoenia e si paga. Ma insomma, il 96 per cento “medio” di Rocca è calcolato solo sul 10 per cento del prescritto. Una volta “ripulito”, scende attorno al 70 per cento, simile a Lombardia ed Emilia-Romagna. La Puglia, altra Regione attesa al voto, non ha dati di cui andare fiera. Come il Friuli-Venezia Giulia del leghista “buono” Massimiliano Fedriga che guida la Conferenza delle Regioni.
Ci faranno vedere prima o poi i dati completi? E quelli dell’intramoenia, che a volte supera l’80 per cento mentre dovrebbe fermarsi al 50? Il governo di Giorgia Meloni è intervenuto, alla vigilia delle Europee 2024, con un decreto legge spot sulle liste d’attesa che è stato solo parzialmente e molto lentamente attuato. Della Piattaforma si è detto, mancano risorse e manca ancora l’Organismo centrale di controllo: finché non vedremo chi lo guida parleremo di nulla. Nelle ultime settimane la presidente del Consiglio ha spiegato ai suoi che sulle liste di attesa il governo si gioca tutto alle Politiche del 2027. Di questo e del chiarimento auspicato dopo il caso vaccini Meloni parlerà presto con Schillaci. Intanto, i dati sulle liste di attesa meglio metterli sotto il tappeto prima delle elezioni.
Alessandro Mantovani


