Sergio e Re Giorgio: quando per il Colle c’è l’obbligo di firma

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Una linea rossa unisce Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, che ha appena firmato la legge sulla gestazione per altri. Sono gli unici ad aver concesso il bis al Quirinale e gli stessi due che hanno esplicitato l’avversione contro il rinvio alle Camere, uno strumento la Costituzione consegna al Colle all’articolo 74: “Il presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”.

Napolitano e Mattarella hanno usato questa attribuzione solo una volta a testa durante i rispettivi mandati; meno di tutti gli altri capi dello Stato della prima e della seconda Repubblica (escluso Giuseppe Saragat, che non l’ha fatto mai).

Venerdì Mattarella – applauditissimo da giornali e media – ha enfatizzato i limiti dell’operato del Presidente (“Promulga leggi, emana decreti e ha delle regole da rispettare”) e ha ribadito che può intervenire “solo in caso di evidenti incostituzionalità”. Napolitano aveva dichiarato la sua ritrosia in modo ancora più clamoroso il 3 ottobre 2009, in piena epoca berlusconiana, quando in Basilicata un cittadino gli chiese di non firmare il terzo scudo fiscale di Giulio Tremonti. Re Giorgio rispose stizzito:

“Se non firmo oggi, il Parlamento rivota un’altra volta la stessa legge ed è scritto nella Costituzione che a quel punto io sono obbligato a firmare. Questo voi non lo sapete? Se mi dite non firmare, non significa niente”. Eppure lo stesso Napolitano, pochi mesi prima, era stato protagonista di un clamoroso scontro istituzionale con Berlusconi e i suoi: il 5 febbraio del 2009 si rifiutò di emanare il decreto legge approvato dal governo per impedire di interrompere l’alimentazione e l’idratazione di Eluana Englaro.

Sulla timidezza di Napolitano (in tutte le altre occasioni) pronunciò parole definitive il suo predecessore, Carlo Azeglio Ciampi: “Il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione – ribadì in un’intervista a Repubblica – Se una legge non va, non si firma. Non si deve usare come argomento (…) che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura (…), per lanciare un segnale forte a chi vuole alterare le regole, al parlamento e all’opinione pubblica”.

Nei suoi sette anni al Quirinale, Ciampi mantenne fede a queste parole e rimandò indietro alcune leggi clamorose: la Gasparri sul sistema radiotelevisivo, quella del leghista Roberto Castelli sull’ordinamento giudiziario e la Pecorella che aboliva l’appellabilità delle assoluzioni. Furono in tutto 8 i testi rispediti da Ciampi alle Camere (compreso il decreto sulla “mucca pazza” per questioni meramente procedurali), in linea con chi l’aveva preceduto

. Eppure è stato lo stesso Ciampi a influenzare – contraddicendo se stesso – il “non interventismo” di Napolitano e Mattarella, con un discorso tenuto all’università di Berlino nel 2003, dove gli fu fatta una domanda sul mancato rinvio del lodo Schifani: “Il Presidente della Repubblica – rispose – rinvia una legge al Parlamento solo in caso di manifesta non costituzionalità”. Chi è venuto dopo di lui, l’ha preso alla lettera.

Tommaso Rodano