Sotto la divisa, l’anima che chiede ascolto

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C’è qualcosa di profondamente ingiusto nel dover raccontare ancora una volta il suicidio di una persona in divisa

Un’altra giovane vita spezzata, un’altra storia interrotta troppo presto, consumata nel luogo che avrebbe dovuto proteggerla, la caserma. L’arma usata è sempre quella, quella d’ordinanza, la stessa che ogni giorno rappresenta dovere, disciplina, forza. Ma la forza, quando è imposta e mai accolta, diventa una prigione.

Nel mio lavoro come psicologa clinica e criminologa, e nel mio attuale percorso di specializzazione in psicologia militare, ho scelto di guardare negli occhi un mondo spesso dimenticato, quello delle persone che portano l’uniforme e che ogni giorno convivono con una pressione costante, una solitudine silenziosa, un’identità pubblica che non lascia spazio a cedimenti.

In molti, quando pensano alla divisa, pensano a chi comanda, a chi protegge, a chi è immune alla paura. Ma questa è solo l’immagine esterna, quella che si vuole trasmettere, quella che rassicura. Dentro l’uniforme, però, batte un cuore fragile come tutti gli altri. Un cuore che ha il diritto di chiedere aiuto.

Eppure, in molti ambienti militari e istituzionali, il disagio emotivo è ancora un tabù. Non c’è spazio per il dubbio, per la vulnerabilità, per la stanchezza mentale. Ci si aspetta che chi indossa una divisa sia sempre lucido, sempre pronto, sempre all’altezza. Ma nessuno è sempre pronto. Nessuno è invulnerabile. E il dolore, se ignorato, trova comunque un modo per uscire, a volte in modo tragico e irreversibile.

Dopo ogni suicidio, le parole sono sempre le stesse: “Sembrava una persona forte, sempre sorridente, molto professionale”. E proprio quel sorriso, troppo spesso, è la maschera che nasconde un dolore profondo. Il professionismo può convivere con l’angoscia, la disciplina con l’ansia, la puntualità con la depressione. Ma se non lo si può dire, se non lo si può mostrare, allora diventa insostenibile.

Chi lavora nelle forze armate e dell’ordine è esposto a ritmi logoranti, a situazioni ad alto impatto emotivo, a un senso di responsabilità schiacciante. A volte manca il tempo per respirare, per fermarsi, per riflettere.

Ma soprattutto manca uno spazio sicuro in cui potersi raccontare, in cui poter dire: “Oggi non sto bene”, senza paura di essere giudicati, penalizzati, esclusi. Perché questo è il rischio reale che percepiscono molti: che ammettere una difficoltà venga letto come un cedimento, come una colpa.

È arrivato il momento di fermarsi e ascoltare. Di chiederci seriamente quanto stiamo facendo, come società e come istituzioni, per proteggere non solo il corpo, ma anche la mente di chi serve lo Stato.

Non bastano le parole di cordoglio, non bastano le commemorazioni, non basta dire “mai più” se poi tutto resta com’è. Servono azioni concrete, programmi di prevenzione psicologica, figure qualificate sempre presenti nei luoghi dove si forma, si lavora, si vive.

Serve una formazione diffusa, che permetta anche ai superiori e ai colleghi di riconoscere i segnali prima che sia troppo tardi. Serve una nuova cultura della cura, che sappia guardare in profondità e non solo in superficie.

Quando una persona in divisa si toglie la vita, non è una tragedia privata. È un segnale collettivo, un campanello d’allarme che ci riguarda tutti. Perché quel gesto estremo è la punta visibile di un iceberg di dolore che spesso resta sommerso, invisibile, inascoltato.

Sotto la divisa c’è un’anima. Un’anima che non vuole essere trattata da eroe, ma da essere umano. E che merita, oggi più che mai, rispetto, protezione e ascolto. Prima che sia troppo tardi.

Dott.ssa Klarida Rrapaj
Psicologa clinica, specializzata in Psicologia Militare