Perché mentre il governo porta al 2% del Pil la spesa militare, il sistema sanitario italiano si lecca le ferite (dopo essere stato travolto dalla pandemia), alla disperata ricerca di risorse – per ora insufficienti – per risollevarsi. E infatti in terra d’Emilia – concreta, laboriosa – c’è chi sta mettendo in fila tutto e facendo un po’ di conti. Questo qualcuno non è un qualcuno qualsiasi, ma Raffaele Donini, esponente di spicco del Partito democratico a Bologna e assessore regionale alla Salute oltreché coordinatore della commissione Sanità della Conferenza delle Regioni.
Documento per chiedere al governo tre cose. “Primo: che lo Stato rimborsi al più presto alle Regioni i quasi quattro miliardi in più spesi per combattere la pandemia, tra cure e campagna vaccinale – dice Donini –. Secondo: che venga sancito il principio che una Regione non può andare in disavanzo per la spesa assorbita dall’emergenza. Terzo: che a fronte delle spese che lo Stato non riesce a coprire si preveda un piano di ammortamento pluriennale”. Ma questo è solo l’incipit. Perché il vero nodo è un altro.
“Se ci sono le risorse per le armi, allora un minuto prima ci devono essere le risorse per la sanità – dice Donini –. Adesso si discute di aumentare la spesa militare. Ma noi è da un anno e mezzo che chiediamo al governo di intervenire in maniera definitiva per la sanità. Perché tra un decreto e l’altro non è che possiamo vivere di speranza. In questo modo non possiamo procedere con una serena programmazione”.
Donini ieri ha postato su Facebook le sue considerazioni. Scrivendo, in sostanza, che prima ancora di pensare alla spesa militare bisognerebbe pensare “alla sanità pubblica e universalistica del nostro Paese che fatica in tutte le Regioni a far tornare i conti”. Poi ha accettato di spiegare perché al Fatto. Partendo proprio dall’Emilia-Romagna, esempio di eccellenza sanitaria. “Eppure per chiudere il bilancio abbiamo dovuto attingere a riserve per 400 milioni che non dovevano essere destinate a coprire le spese sostenute per la pandemia”, spiega, confermando che ora tutte le Regioni hanno gli stessi problemi.
E poi ci sono gli altri fronti aperti. E che fronti. Da quello del personale (“siamo in fase di rinnovo del contratto e mancano ancora 300 milioni di copertura”) al caro-energia (“con i fortissimi rincari delle bollette che stanno mettendo in ginocchio gli ospedali: l’ultimo decreto del governo non basta”). Per arrivare al fondo sanitario nazionale “che va incrementato”, al piano di riassorbimento delle liste d’attesa “che costa, se abbiamo speso miliardi per la pandemia adesso li dobbiamo spendere per recuperare”. Senza tralasciare cosa prevede il Def, rammenta Donini: “Nel 2020 la spesa sanitaria era al 7,4% del Pil, nel 2021 è scesa al 7,2% e nel 2024 tornerà al 6,3%. Nella fase più critica dell’emergenza avevamo giurato che mai più avremmo tagliato la spesa per la salute e invece… Per questo io dico che ancora prima della questione delle armi va affrontata la questione della sanità”.
Ma è una questione di priorità dopotutto e la direzione intrapresa dal premier Mario Draghi, col sostegno del Pd di governo, il partito di Donini, è puntare a tutta forza sulla corsa al riarmo con buona pace di chi ha evocato scenari di altre future pandemie, per non parlare dell’ulteriore taglio alla martoriata scuola pubblica (dal 4 al 3,5% fino al 2025 compreso) con la scusa dell’aumento dell’età media della popolazione. L’Italia entrerà a pieno titolo nel consesso che l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva ribattezzato “club del 2%”, i Paesi della Nato che già nel 2021 spendevano più del 2% del Pil per la Difesa: Grecia (3,59%), Usa (3,57), Polonia (2,34), Regno Unito (2,25), Croazia, Estonia e Lettonia (2,16), Lituania (2,03).
DI GIAMPIERO CALAPÀ E NATASCIA RONCHETTI



