Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, con la brillantezza retorica che lo contraddistingue, ha recentemente offerto al dibattito pubblico una perla di saggezza: “L’abuso di acqua può portare alla morte”. Il tutto per difendere il vino dalla minaccia dell’etichettatura allarmistica che la Commissione europea vorrebbe imporre sulle bevande alcoliche.
Ora, è evidente che viviamo nell’epoca della sicurezza esasperata, ma forse ci siamo persi qualcosa: se ogni cosa abusata può risultare nociva, allora perché fermarsi al vino? Serve un’etichetta di avvertenza sulle carote (attenzione: potrebbero farti diventare arancione), sulla musica (a volume alto danneggia l’udito), sui libri di filosofia (rischio di crisi esistenziale), sulla corsa (può causare affanno) e persino sulla vita stessa (provoca morte nel 100% dei casi).
Ma torniamo all’acqua, questo liquido insidioso che, secondo alcuni studi, può risultare letale se assunto in quantità eccessive. Per la precisione, 8,3 litri ingeriti in un breve periodo possono portare alla cosiddetta iponatriemia, una diluizione eccessiva del sodio nel sangue con conseguenze fatali.
Quindi sì, teoricamente, potremmo mettere un’etichetta anche sulle bottiglie d’acqua. Ma, piccolo dettaglio, l’acqua è il principale costituente del corpo umano: rappresenta circa il 60% del peso corporeo di un adulto, il 50% nelle donne e addirittura il 75% nei neonati. Eppure, secondo la logica Lollobrigidiana, potremmo ritrovarci presto un bel “Nuoce gravemente alla salute” anche sulle fontane pubbliche.
E dire che Talete, uno dei padri del pensiero filosofico occidentale, sosteneva che l’acqua era il principio di tutte le cose. Aristotele lo citava con rispetto, indicando come il suo pensiero avesse aperto la strada alla ricerca delle cause prime dell’esistenza. Oggi, invece, siamo qui a interrogarci se, per coerenza, dovremmo apporre un avviso sulle etichette: “Attenzione: l’acqua è il principio di tutto. Ma anche della fine.”
Fabio Cavallari



